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Facoltà

Il sangue delle vinte

L'Antico Oggi a Siracusa

 
 
01 febbraio 2007
di Fernando Gioviale
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«La fonte più aperta della musica è lo spartito; le interpretazioni multiple sono solo limitate dall'immaginazione umana. Anche il testo di un dramma è primario, ma rimane esanime senza la rappresentazione. La rappresentazione è la chiave. Una tragedia greca inizia a vivere solo quando ha lasciato la pagina. I personaggi calcano la scena davanti a noi e le loro parole diventano indimenticabili. Ordiscono l'incantesimo che tutta la grande poesia drammatica produce. E noi diventiamo migliori e più felici per questo». Così Marianne Mc Donald a conclusione del suo L'arte vivente della tragedia greca. Per motivare il nostro disaccordo, basterebbe appellarsi a un ipse dixit tra tutti il più autorevole, Aristotele in persona: [Poetica, 1453 b] È possibile che quanto produce terrore e pietà nasca dalla messa in scena, ma è anche possibile che derivi dalla stessa composizione dei fatti, il che è preferibile ed è proprio di un poeta migliore. Giacché il racconto deve essere così costituito che, anche senza vedere la scena, chi ascolta i fatti che accadono, a motivo degli avvenimenti stessi, frema di orrore e di pietà: sentimenti che certo si proverebbero se si ascoltasse la storia di Edipo. Mentre il procurare questi effetti per mezzo della messa in scena è meno artistico e bisognevole della regia.

Ad Aristotele interessava salvaguardare la piena leggibilità della tragedia, ormai al di fuori della grande e irripetibile lezione spettacolare di un'Atene che non c'era più. Perché allora riportarne qui un pensiero tra i più personali e discussi? Per un'esigenza, diremmo, insieme metodologica e 'difensiva'. La poesia tragica si può e si deve leggere: assumere che viva solo sulla scena, come pretende l'eccellente studiosa statunitense (e non solo lei), significherebbe infatti non solo condannare quella cospicua parte di umanità non priva di curiosità culturale ad ammettere di non aver potuto mai conoscere il teatro antico, ma, paradossalmente, un po' tutti - anche quelli che al Teatro Greco o altrove qualche volta si recano (un fideista sancirebbe che bisogna andare a Siracusa, novella Mecca, almeno una volta nella vita.) - a dipendere volta per volta dall'esito della messinscena: e se per disgrazia ci s'imbatte in uno spettacolo deprimente, persuadersi o dell'assoluta insufficienza del tragico in questione (se verum et factum convertuntur) o della sua ontologica inconoscibilità. Il regista, infine, diventerebbe l'indispensabile medium, per non dire l'insostituibile sciamano, capace, egli solo, di realizzare l'evento, come di far cadere la pioggia in un deserto o propiziare la gravidanza in una sterile.

E che guaio, se scendono in campo certi propalatori di effetti; lo intuiva bene Aristotele: Quanto poi a quelli che per mezzo della messa in scena procurano non il terrore, ma ciò che è soltanto mostruoso, questi non hanno niente a che fare con la tragedia. Giacché non è che si debba ricercare ogni e qualsiasi piacere dalla tragedia, ma quello soltanto che le è proprio.

Il lettore meno paziente si starà già chiedendo dove si voglia condurlo col nostro puntualizzare. La risposta è semplice: andare a Siracusa non significa  abbeverarsi alla fonte della verità. Rechiamoci dunque in quella ortigiana città - una delle uniche al mondo che vanta l'Italia - con disposizione laica, serena, prudente, e insieme sempre fiduciosa (allo spettacolo s'ha da assistere con animo lieve, non già proiettandovi le nostre ubbìe, esaltazioni o prevenzioni che siano), perché in quel teatro senza l'eguale si svolge un evento umano, non sacro, e dunque fallibile: non è insomma il rito liturgico della messa, dove per i cattolici si compie infallibilmente l'eucaristia per (in)degno che possa essere il sacerdote officiante (ricordate il presidente Riches, nel Contesto di Sciascia, che pretendeva altrettanto nel processo penale?). Ogni cittadino-spettatore, dal netturbino al professore universitario (per servirci della formula politicamente scorretta ma esemplarmente chiara di Tomasi di Lampedusa a proposito del melodramma, che personalmente aborriva), sappia infine che, grazie alle virtù dell'editoria di massa (difendiamola, ogni tanto, questa nostra vituperata contemporaneità), potrà trovare in libreria un'ottima edizione bilingue del classico in questione: provare per credere.


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Se quinci e quindi laicizzato (ovvero, senza disporsi a prender tutto per buono, come i cafoni di Certaldo di boccacciana memoria dinanzi alle dulcamaresche mirabilie di frate Cipolla; ma anche senza pretendere misticamente il Rito, l'Evento, l'Epifania), la dolce consuetudine del viaggio siracusano in cerca d'antico potrà dare i suoi frutti. E più o meno li dà, infatti. Lo dice chi, come noi, chiamatovi da ulteriore dovere professionale, deve ammettere il proprio ragionato compiacimento anche dinanzi a folle osannanti (sconsideratamente, talvolta: felici i tempi in cui usava fischiare e lanciare improperî o/e ortaggi.). Tutta quella gente accalcata e accaldata, magari in possesso di idee assai vaghe sul teatro perché poco lo guarda e pochissimo lo legge: la stessa che un impareggiabile provocatore culturale come Filippo Tommaso Marinetti (o il suo clan) gratificava soavemente di epiteti siffatti: Senza rimorso, al teatro Greco di Siracusa, una folla di passatisti siede per ore col culo a terra per sentire che Agamennone cornificò la moglie.Quella seria massa di infatuati merita il risveglio di una pedata o, meglio, l'odorante refrigerio di un pitale (per i più giovani: pitale=orinale=vaso da notte: oggetto igienico in uso notturno ancora oltre la metà del secolo XX); tutta la folla in festa, infine, sottratta per un giorno agli strapagati imbonitori di Nonna Rai e Mamma Mediaset (ma dimenticavamo: col sacrificio rituale della famiglia Marchi ci sentiamo più buoni e puri, ormai), a noi - confessiamole, certe debolezze innocenti - piace: perché tra il caldo ordinario e il freddo straordinario (abbiamo sofferto, la sera delle Troiane: non per la regìa di Mario Gas, alquanto spaesata ma non al punto da obnubilare il genio di Euripide, l'antica grandezza di Lucilla Morlacchi, un buon gioco di squadra, un valido gruppo di coreute tutte individuabili per presenza scenicovocale; ma più banalmente - e chi se lo aspettava - per le gelide raffiche di tramontana che ti colpivano a tradimento dopo un sole ardentemente ingannevole: e soffrivamo pure per quella povera Elena discinta e seminuda, lussuriosa come da copione - in Divorzio all'italiana di Pietro Germi si sarebbe detto: bbuttana! -, tenuta al guinzaglio da 'mastini' nerboruti ma costretta a dibattersi più del dovuto in funzione antiassiderante), tutta quella gente - quanta, quest'anno! - stava lì per Euripide, infine, per la tragedia delle donne vinte, per ammirarne l'estrema dignitosa autodifesa, per palpitare con la sfortunatissima regina cui hanno tolto tutto, e che deve assistere impotente, corazzata solo della propria invitta dignità, anche al sacrificio del nipotino Astianatte, fieramente compianto, senza isterismi, dalla madre Andromaca. A proposito: era proprio indispensabile farla arrivare in scena tutta impeplata, sì, ma dentro uno scomodo e scalcinato furgoncino? Si deve allo scenografo Antonio Belart, la magnifica trovata, o l'ha voluta il regista spagnolo? Perché può anche starci, il prologo in borghese medietà di costumi, con Poseidone invaligiato viandante (memore, a suo modo, del Wotan Wanderer di Wagner? Chissà) e Atena flessuosa assistente di volo: un'ouverture ironica e smitizzante, che sa un po' di avanspettacolo un po' di Giraudoux.

Ma una volta scelta, come che fosse, la strada dell'antico (fatti salvi i greci e Taltibio, accettabilmente futuribili: sono i vincitori, in fondo, i diversi), e una scena sinistramente allusiva di una città carbonizzata, e mentre le donne vinte vestono in lungo, la regìa di Gas, grazie anche al misterioso furgoncino, sapeva di composizione affastellata, benché a tratti di simpatico bricolage; e nonostante l'encomiabile impegno di tutti (di tutte) suscitava l'imbarazzante sensazione che, di mezzo a tanti oggetti, non si trovasse un'idea.

Idea che, per contro, Massimo Castri aveva ben chiara per Ecuba. Sono anni che lavora su Euripide: Elettra (Spoleto 1993), Ifigenia in Tauride (Perugia 1994), Oreste (Prato 1995), la stessa Ecuba (Roma 1994) che così ci racconta Umberto Albini: «L'Ecuba è agghiacciante sin dall'inizio: si vedono mucchi di macerie a destra e a sinistra di una lunga strada che si perde nelle lontananze. Una pioggia sottile trasforma la terra in fanghiglia. Ecuba è una vecchia che si trascina come le altre prigioniere, avvolta in un cappottaccio». Dalla lunga strada del Teatro Argentina si giunge ora a una landa desolata, coperta di sabbia-cenere, dove con gesto ripetuto e immotivato Elisabetta Pozzi trascina dei soldati-fantocci accatastandoli attorno a un tronco, mentre ringhia e borbotta tra ubriaca e invasata, trasognata e isterica, eppure pronta a drizzare le orecchie per irrompere in scena: ulteriormente lacerata tra il sacrificio di Polissena e l'assassinio di Polidoro. Il troppo è troppo: incassato l'ultimo dolore per la figlia - che ha dato ai greci, e a lei stessa, ammirata lezione di fierezza -, questa mater dolorosa sente scatenarsi la corda pazza per l'estremo oltraggio del figlio, già prudentemente mandato in Tracia e ivi scannato per cupidigia. Una sua beffa atroce - archetipo di sviluppi cannibalici da Ovidio a Seneca (Tieste) a Shakespeare (Tito Andronico) - porterà alla strage dei figli e all'accecamento del tirannello Polimestore, mellifluo levantino (sembra, a debita distanza, Totò in Un turco napoletano) destinato a strapagare il fio. Regista e scenocostumista (un ben noto ed esperto Maurizio Balò) 'modernizzano' dentro un clima da Grande Guerra che rispetto all'oggi sa di rétro, con tanto di soldati da trincea, stampelle scagliate alla maniera di Enrico Toti, e una primadonna che finisce col trascenderle, le guerre 'storiche', nel suo portamento vincolato a una fatica scenica che sa di Brecht e di Madre Courage (da sempre nelle corde della Pozzi). L'esecuzione  è lì lì per virare al comico, in paradosso solo apparente: perché Euripide, in fondo, vi si presta, anche oltre le tragedie a lietofine (Alcesti, Elena, Ione), per quanto seppe prefigurare verso il romanzo greco-bizantino e modelli precoci di commedia d'intrigo e di carattere. Il tutto funziona, anche perché la lezione plurimodulata di Castri confida nella centralità di una Pozzi impressionante sia nell'alienazione coattiva e maniacale sia nell'esplosione euforica e vittoriosa.

Se il tradizionale trabocchetto siracusano era la declamazione stentorea di un'antica e già gloriosa scuola aulicheggiante, ora - grazie a un'amplificazione individuale ovviamente aborrita dai puristi a oltranza: gli stessi che detestano i sopratitoli per l'opera lirica - l'attore può puntare sull'introversione anche sommessa: dolente e stranita in Lucilla Morlacchi, franta e isterica in Elisabetta Pozzi. Prova d'attrice e d'attori e corale Le Troiane; autorale e attorale drammaturgia Ecuba, che svela da subito una volontà d'intendere Euripide più nel suo orizzonte di prospettiva che nella sua peculiare appartenenza. Castri, che vi giunge da Ibsen, taglia e raccorda, prosciuga e innerva: così non ha più ragion d'essere, nel suo prospettivismo, il fantasma di Polidoro in ouverture, e la strutturale imponenza di contorno si plasma in più duttile contesto, mentre i roboanti greci vittoriosi si umanizzano fino alla parodia (come per nemesi: Odisseo si prepara all'odissea, Agamennone a conoscere la débacle familiare: e fossero solo corna, con buona pace di Marinetti.); quanto al coro, smarrita la sua rituale circolarità, esso si slabbra in poche presenze parlanti 'dirette' dal gesto musicale di una struggente violinista. L'effetto è suggestivo, trascinante anche in certo straniamento ironico; al punto che la pioggia, involontario elemento aggiunto di scenografia, anziché scoraggiare ha rinsaldato il gruppo e reso più 'eroica' la performance di un'Ecuba esaltata dalle avversità: fino a una sorta di abbraccio finale, dopo le tollerabili inclemenze del cielo, tra pubblico fedele e attori commossi.

Tutto per bene, allora? Solo se si accettano certe (opinabili) premesse. Castri parrebbe suggerirci che l'antico può rinvenirsi in una terra di nessuno, un infinito 'dopo' che non è più un 'oggi': perché è solo un luogo della mente, cui conferire il volto che si crede. Il problema, tuttavia, sovrasta la poetica di un regista, per grande che sia: ed è, più che filologico-testuale, storico-culturale, linguistico e formale. Se la tragedia non si può più ricostituire come antico rituale ludico e sacro, anche per carenza di precisi riferimenti e strumenti(ma non è poi vero del tutto: come insegnano Nel nome di Dioniso di Albini e, soprattutto, La tragedia sulla scena di Di Benedetto e Medda), condividiamo quanto argomentato da un grecista doc e intellettuale sicuramente 'contemporaneo', Luciano Canfora, che nella prefazione a un libro di Martina Treu annota cose semplici e chiare nella loro equilibrata militanza antimisoneista.


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D'accordo: ma finisce con lo sconcertare l'ostinazione ormai sistematica nel voler negare visibilità vuoi all'antico come tale (ovvero, per quanto possibile, 'filologico') vuoi all'antico come reinvenzione fantasticante: e a costo di apparire neoconformisti, indicheremo ancora il Pasolini di Edipo re e di Medea, forte - va da sé - del superiore dinamismo del linguaggio filmico ma altresì capace di contaminare con anacronistico sincretismo l'arcaico, l'antico e il moderno (e forse il futuro). Non occorrerebbe scomodare il Leopardi delle favole antiche per convenire che l'infinito passato è più vago e poetico dell'indefinito presente: quale passato, tuttavia, in epoca di steineriana morte della tragedia? Smarrite e verosimilmente perdute le 'precondizioni' del tragico - in entrata (produzione) e in uscita (ricezione) - ci restano infine due tradizioni ben concrete e viventi: i testi drammatici stessi (i superstiti, non dimentichiamolo) e un genere creativo che sin dalla prima nascita al pastorale e al tragico guardava per convincimento morale e retorico: il melodramma.

Quando s'inscena Euripide, non si dimentichi - per favore - che  certi suoi testi venivano intonati e cantati quasi per intero, e che fior di classicisti in vena di squisite versioni poetizzanti - Filippo Maria Pontani sopra tutti - hanno voluto intenderne il ritmo propriamente musicale: con  un endecasillabo di sontuosa tradizione, di mezzo alle diverse soluzioni metriche, a signoreggiare le parti dialogico-discorsive, come nel Sofocle felicemente 'inattuale' di Giuseppina Lombardo Radice. Aperta e irrisolta resta, infatti, la questione dei versi: non guardò forse ai martelliani un Pasolini, per volgere in romanesco il Miles gloriosus? E già Brecht, per la sua geniale allegoria del gangsterismo-hitlerismo (La resistibile ascesa di Arturo Ui), non volle la pentapodìa giambica di Shakespeare, Lessing, Goethe, Schiller? Si prenda atto, finalmente, che a Siracusa la vulgata modernistica s'è fatta più o meno tranquilla koinè: e che non meraviglia più nessuno, all'infuori di quattro vestali del Passato Offeso.

Ma come il ritorno a un 'antico' romantico di scuola tedesca permise a Pirandello di scardinare un senescente naturalismo teatrale, così riscoprire e reiventare l'antico nella tragedia, alla luce di un 'neoantico' d'impianto melodrammatico, potrà essere innovazione antipassatistica e neoavanguardistica. Parve, ed era, rivoluzionario spezzare la piena frontalità wagneriana del palcoscenico immerso nell'oscurità per ripristinare arcaiche circolarità a tutto campo d'impronta elisabettiana: perché lo straniamento provocava piacere, meditazione, catarsi.

I formalisti russi e Sklovskij insegnavano appunto che l'arte ti fa percepire gli oggetti da una prospettiva strana, ellittica, inusitata: peculiare forma di conoscenza, inconfondibile con quella razionale. L'esibita e canonica modernizzazione sconfina ormai nel manierismo: routinier o creativo che sia; e a maggior ragione fa riflettere e ripensare, se s'abbia a che fare con uno spettacolo di sicuro livello creativo. Soprattutto, non può metodologicamente accettarsi che l'antico, per trovare udienza, debba giocare al moderno: la si consideri una via possibile, non già quasi coatta (e si guardi, anche, al lavoro di Peter Stein, non a caso regista di melodramma).

Né vorremmo rassegnarci a ritenere inevitabile, manco l'avesse ordinato il medico, che - a Catania - la prima esecuzione italiana in forma scenica dell'opera d'esordio di Richard Strauss, Guntram, introducesse unafiammante automobile in una vicenda di Minnesänger, medievale se mai ve ne furono, piena d'incantamenti e di redenzioni.

Talché sospettiamo un eccessivo ottimismo nelle parole di Francisco Rico, che per un libro a più voci (tra le quali quella, lucidamente vigile in mezzo al disincanto, di Salvatore Settis, Futuro del «classico»), in un intervento significativamente intitolato Rimuovere i classici?, da par suo scriveva (e ci ha fatto pensare a un bel volumetto di Galli Della Loggia, L'identità italiana, così attento al peso specifico del classicismo, per un'Italia in cerca d'Europa, da indurci una volta tanto a concordare senza riserve): «Sospetto che l'Italia sia la terra promessa per il dialogo che suggerisco.

Nella maggioranza dei Paesi, uno dei motivi di attrazione dei greci e dei latini è che si possono leggere come se non avessero patria. In Italia si tende a considerare i classici come fossero di casa». Il confratello mediterraneo stimola il nostro patriottismo, del che gli dobbiamo gratitudine: e forse riesce a vedere meglio di noi stessi le nostre virtù antiche di là dai nostri vizi attuali. Come che sia: perché non proviamo ad ascoltarlo?