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Libri e dintorni

L'editoria a Catania


 
 
01 febbraio 2007
di Nino Recupero
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Tra l'aprile e il giugno del 1994, su iniziativa dell'allora assessore alla cultura del Comune di Catania prof. Antonio Di Grado, un folto gruppo di docenti del nostro ateneo, assieme a diversi giornalisti e intellettuali, si era messo all'opera per resuscitare "La Rivista del Comune", una testata di lunga tradizione. Quel progetto purtroppo non ebbe seguito per banali problemi amministrativi. Tra gli articoli scritti per il primo numero della nuova serie della rivista (che non fu mai pubblicato), grazie al prof. Luciano Granozzi che ne aveva conservato copia, abbiamo trovato questo inedito del prof. Antonino Recupero. Lo riproponiamo, pur a distanza di tanti anni, vista la straordinaria attualità delle considerazioni sullo stato "strutturale" dell'editoria catanese. Per la redazione del "Bollettino d'Ateneo" questo è anche un modo per ricordare la figura dell'illustre collega, immaturamente scomparso, che aveva più volte fornito alla nostra rivista contributi di grande interesse. Vedi: Il libro universitario tra mercato e impresa ("Bollettino d'Ateneo" n. 1-2 del 2002), Una finestra sul mondo. Il Cuc nella Catania degli anni Sessanta ("Bollettino d'Ateneo"  n.  4 del 2002), La vita studentesca nella Madrid di fine Ottocento ("Bollettino d'Ateneo" n. 3 del 2003).

La Sicilia occupa, tutto sommato, un posto di notevole rilievo nella produzione libraria nazionale. Innanzi tutto come quantità: pur nella difficoltà di fornire cifre esatte, si può dire che tra libri, riviste e giornali la Sicilia si colloca in un buon posto tra i "secondi" dopo aree quali Lombardia, Piemonte e Toscana. Ma, senza facili sciovinismi, bisogna riconoscere che la nostra editoria non è al livello né della nostra tradizione, né delle potenzialità culturali siciliane: basti riflettere che, anche nel Mezzogiorno, Napoli e Bari ospitano centri editoriali "maggiori", di riconosciuta rilevanza nazionale (nel senso che la la cultura nazionale non potrebbe farne a meno senza una perdita grave).

Anche la Sicilia, è vero, accoglie editori "nazionali". Oggi l'Isola ospita oltre un centinaio di case editrici attive professionalmente, più una cinquantina tra Enti e Fondazioni che pubblicano senza fini di lucro. Almeno una decina (o poco più, a seconda dei criteri di classificazione) si collocano fra gli editori di livello nazionale, col rango di piccole o medie imprese. Occorre definire a quali requisiti ci riferiamo, parlando di "editore nazionale". L'editoria, contrariamente a quanto piace a Berlusconi, non presenta una immediata rispondenza fra capitale investito o numero di addetti, e importanza culturale. Vi sono editori che per la qualità dei testi prodotti, e per la coerenza dell'impegno hanno guadagnato un rilievo che non è commensurabile alle dimensioni del loro fatturato annuo. Al contrario, l'investimento di capitali e un forte fatturato (come in molte delle edizioni d'arte e di lusso) non è stato sempre garanzia di prodotti innovativi, o "indispensabili" culturalmente.

Per acquisire il livello nazionale, occorre dunque, innanzi tutto, una continuità relativamente costante nel tempo; un catalogo ricco, non solo numericamente, di testi che abbiano fatto discutere anche al di fuori dei confini regionali; naturalmente, occorre una circolazione nazionale (è lo spinoso tema della "distribuzione"); infine, inevitabilmente, ciò significa un livello minimo di fatturato, una minima organizzazione aziendale. Il contrassegno inconfondibile della riuscita di un editore è la sua capacità di attrarre scrittori e collaboratori "da fuori", da un'area nazionale. Ora, sfogliando la lista delle imprese siciliane, è facile trovarne una diecina con queste caratteristiche (e mi scuso fin dall'inizio per eventuali, fatali omissioni): a Palermo Sellerio, Novecento, Flaccovio, Lombardi; a Caltanissetta Salvatore Sciascia, Palumbo; a Catania Domenico Sanfilippo, Maimone, Bonanno; a Messina Sicania; e così via. Eppure, qual è il romanziere o saggista siciliano che puntando a conseguire il successo non preferirebbe Einaudi, Mondadori, o anche Laterza ad uno qualsiasi dei nostri editori? Non è forse vero che il corpo docente delle nostre università si affida agli editori locali per le cosiddette "dispense" (oggi quasi tutte in forma di libro) ma che punta ad una "grande" casa editrice se veramente intende sfondare? Le strategie del successo sono chiarissime e purtroppo impietose.

 


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E Catania?

Dov'è finita la Catania così fiera della propria autonomia culturale e letteraria "moderna", orgogliosa dei suoi Verga, De Roberto, Martoglio, Brancati? Anche la nostra città allinea nel proprio passato editori di fama, quali Giannotta e Prampolini. Editori "seri", che soddisfacevano i bisogni della scuola e dell'università e che, basandosi sul solido zoccolo di scrittori locali affermati, si permettevano anche di lanciare autori nuovi. Negli anni venti e trenta, Catania è stata anche teatro di una "sperimentazione" letteraria e saggistica raccolta attorno allo Studio Editoriale Moderno di Agatino Amantia: un'impresa che finì nel fallimento economico, ma che fece pubblicare Aniante, Brancati, Prestinenza, Titomanlio Manzella, omologando la cultura catanese alle tendenze nazionali.

Cosa c'è oggi di tutto questo? Sede di una importante e affollata università, dotata di almeno un quotidiano importante, nei decenni scorsi la città ha prodotto una intellettualità curiosa, aperta, vivace, spesso irrequieta e irresistibilmente attratta verso metropoli sempre più grandi. Lo prova il numero dei giornalisti di nascita e formazione catanese che hanno fatto carriera nei grandi giornali nazionali.

Come mai, in queste condizioni, da Catania non è ancora emerso un editore realmente di spicco sul piano nazionale? A scanso di equivoci, ripeto che in città non mancano aziende di tutto rispetto. Eppure... a voler essere cattivi si potrebbe ricordare che un filosofo catanese ha cominciato ad essere preso in considerazione quando i suoi libri sono usciti da Adelphi, che una scrittrice ha raggiunto il successo pubblicando presso Bompiani...

Basandomi su una lunga esperienza personale, credo di poter dire che i lineamenti più evidenti nell'editoria catanese siano la mancanza di continuità, e un ribollire di iniziative che non sanno (e finora non hanno voluto) saldarsi insieme. Si potrebbe far ricorso alla frasetta sulla "mancanza di cultura imprenditoriale"; e non sarebbe del tutto falsa. A Catania non si è realizzata finora la saldatura tra "il Capitale" e la "Cultura". Per esempio è significativo che alcuni dei gruppi economici provinciali abbiano sentito, in vari momenti, il bisogno di finanziare giornali, settimanali e - naturalmente - emittenti televisive, ma mai di investire in una casa editrice (eppure uno di questi gruppi vanta anche una fondazione culturale!). La stessa scena guardata dall'altro lato ci dice che nessuno degli editori della prima metà del secolo è riuscito a superare la svolta degli anni sessanta crescendo, con le proprie forze, fino a dimensioni imprenditoriali.


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Se questo è vero, c'è da imputare la situazione presente ad una certa carenza di cultura dell'imprenditoria e della finanza catanesi (ma dal canto suo la cultura ha manifestato anche un certo snobismo e "minimalismo": in parole più dolci, gli agenti della cultura non hanno saputo convincere gli imprenditori dell'opportunità di farsi editori). Non che non siano circolati capitali anche grossi nella produzione libraria degli ultimi anni: ma ahimé, si tratta soprattutto della produzione di opere "belle", di lusso e di alto prezzo, destinate ad un "circuito chiuso" più che al mercato. Anche se ciò ha permesso la pubblicazione di un certo numero di reprint di opere antiche, questo genere di attività culturale è più consolatoria che critica, più fine a se stessa che capace di sviluppare cultura. Si tratta di una cultura di consumo, prediletta come strenna da banche e aziende (e spesso anche da enti pubblici): una tendenza che, a quanto pare, va ad esaurirsi. Da un punto di vista imprenditoriale, questi libri implicano il minimo rischio: si prevedono forti ricavi (spesso pianificati in anticipo) in cambio di investimenti tecnici nella qualità della stampa, ma deboli investimenti nella struttura editoriale e nel lavoro intellettuale. Su questi ultimi elementi, gli unici propositori di cultura, si tira al risparmio (e non si crea lavoro). Si perpetua così la dicotomia tra cultura e politica, e non c'è interesse a tirarsi fuori dall'ambito locale. Mi preoccupa che l'azienda editoriale legata alle floride finanze del più grosso quotidiano locale abbia seguito in sostanza questa strada; mentre credo sia da apprezzare il fatto che un altro editore catanese, riconoscibile per l'alta qualità grafica e tecnica dei suoi lavori, abbia affiancato alle edizioni di lusso varie collane di saggistica e si stia sforzando di aggregare forze intellettuali e artistiche.

Se questa mancanza di continuità riflette la debole cultura industriale, resta valido l'altro lineamento della cultura catanese, e cioè il suo continuo fermento creativo. Nell'ultimo biennio, per esempio, sono sorte (o hanno cominciato a fiorire) diverse nuove case editrici istituzionalmente dedite ad una editoria di alto livello culturale; una di queste, legata ad una nota libreria, si propone direttamente e coraggiosamente sul mercato nazionale; né bisogna dimenticarne un'altra, la cui base di partenza è però Acireale. Ma l'universo economico, si sa, non ha pietà per nessuno, e ci vorranno anni di continuo successo perché questi piccoli imprenditori possano accumulare sufficienti risorse per mettersi al riparo dal fallimento, costituire una seria struttura aziendale, offrire lavoro, remunerare come si deve autori, redattori e traduttori.

Il problema si trova oggi, a mio giudizio, in uno stadio critico, in una fase nella quale è solo possibile augurare: augurare che intellettuali, artisti e accademici diano il più possibile agli editori locali, sforzandosi di accantonare la loro litigiosità professionale; augurare che gli imprenditori perfezionino la loro mentalità aziendale, e comprendano che la cultura può essere un buon investimento, ma solo se resta libera di creare; che smettano cioè di pensare che per compensare i creatori del libro basti la soddisfazione di "vedersi stampati"; che attirino libri e cervelli da fuori per farli dialogare con i catanesi.
Augurare, infine, che l'ente pubblico abbandoni la perniciosa politica di sostenere l'editoria ad esso "vicina" comprandone i prodotti. Dati d'inchiesta (discutibili, come sempre, ma non migliorabili) affermano che solo il 2 per cento circa dei libri italiani viene venduto in Sicilia. Se la realtà è questa, il problema non è l'editoria a Catania, ma i lettori catanesi. A parte le forniture per le biblioteche, e le normali provvidenze per le aziende, il problema dell'ente pubblico mi sembra sia quello di educare la gente a leggere; di creare lettori, non di sostituirsi ad essi.