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Libri e dintorni

Verga precettore inedito nelle "Lettere ai nipoti"


 
 
01 marzo 2008
di Gisella Padovani
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Immagini: per gentile concessione della Lussografica di Caltanissetta


Tra il 1900 e il 1918 Giovanni Verga inviò ai tre figli di suo fratello Pietro un gran numero di lettere, cartoline, biglietti oggi custoditi nella biblioteca regionale universitaria di Catania, all'interno di un fondo di recente acquisizione.

Si tratta di centotrentaquattro documenti epistolari preziosi al fine di esplorare zone poco note dell'ultima fase della biografia del narratore verista. Li ha riportati alla luce il dott. Giuseppe Sorbello, del dipartimento di Filologia moderna della nostra facoltà di Lettere e filosofia.

Curato e introdotto da Sorbello, presentato da Mario Tropea (professore ordinario di Letteratura italiana e direttore della collana "Biblioteca di cultura mediterranea" in cui l'opera si inserisce), l'elegante volume di Lettere ai nipoti, edito dalla Lussografica di Caltanissetta nel 2007, è arricchito da un ampio corredo iconografico, che include le riproduzioni a colori di tutte le cartoline illustrate spedite dallo zio ai tre nipoti, numerose fotografie scattate da Verga, oltre a ritratti fotografici dello scrittore e di suo fratello Mario eseguiti dal celebre Nadar (Giuseppe Sorbello li ha reperiti in Francia con l'aiuto del prof. Laurent Lombard, dell'università di Avignone). Un valido contributo al successo dell'iniziativa è stato fornito dalla direttrice e dai funzionari della biblioteca regionale universitaria; in modo particolare dalla dott.ssa Salvina Bosco, autrice del capitolo dedicato all'accurata descrizione del fondo "Carteggio della famiglia Verga". (foto a destra: Giovanni Verga, 1882)

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Specularmente opposto all'immagine stereotipata di un anziano scrittore isolato, incupito dal pessimismo e rassegnato all'inerzia nella stagione conclusiva della sua vita, affiora dai tracciati tematici delle lettere ai nipoti il profilo di un Verga attivo e vigile, coinvolto in onerose responsabilità familiari e in legami affettivi molto intensi. Sollecito e amorevole zio di Caterina, Giovannino e Marco, affidati alla sua tutela dopo la perdita della madre nel 1896 e del padre sette anni più tardi, egli stabilisce con i tre ragazzi un contatto epistolare in virtù del quale, a giudizio di Sorbello, sembra affrancarsi dalla «sua naturale ritrosia a instaurare rapporti sereni ed espansivi».

Le lettere a cui ci riferiamo, e specialmente quelle inviate a Caterina, aprono uno spiraglio sull'intimità della vita quotidiana di uno scrittore riluttante per inclinazione caratteriale a render noti aspetti e momenti della propria storia familiare. Verga avverte il dovere di educare alla vita la sua "Tina" e di trasmetterle una saggezza radicata nella sfera primaria dell'esperienza e del vissuto: «Tu che sei intelligente capirai quello che può fare alle volte una parola affettuosa e sincera a dissipare ogni nube. [.] E ricordati che affetto chiama affetto. Colla dolcezza e colla affettuosità ci facciamo voler bene», le scrive il 24 febbraio del 1908. In questa lettera e in altre comprese nel volume oggetto della nostra attenzione, l'autore dei Malavoglia, di solito refrattario all'espansione sentimentale, rivela le proprie esperienze interiori e reazioni emotive: «E sappi che al tuo bene e a quello di tuo fratello ho dedicato tutto me stesso, con sacrifici che non vedete e di cui non vi rendete conto, ma che faccio volentieri perché vi amo come figli».

Caterina dovrà innanzi tutto essere una moglie e una madre capace di salvaguardare e rafforzare i vincoli affettivi su cui si reggerà la sua famiglia. Ma lo zio Giovanni sa bene che è necessario anche impartirle un'istruzione dignitosa, farle attingere preferibilmente negli educandati un grado di cultura che se pure non molto elevato le consenta di ben figurare in società. Obiettivo, quest'ultimo, che la giovinetta potrà perseguire anche dedicandosi al disegno, alla musica e al canto, affinando la sua abilità nell'arte del ricamo, vestendo con ricercata eleganza. Colpisce a tal proposito l'importanza che Verga attribuisce alla consultazione dei giornali di moda femminile in relazione alla foggia dei cappellini da scegliere per Tina.

I consigli di cui sono punteggiate le lettere alla nipote veicolano nel loro complesso un disegno pedagogico teso a modellizzare un tipo muliebre qualificato da delicata spiritualità e sobria eleganza del contegno e dell'abbigliamento, connotatori indiziari della sua classe di appartenenza. Una donna aggraziata e distinta, dolce e affettuosa, alla quale non si richiedono requisiti intellettuali di alto livello. Sembra addirittura che Verga, interessandosi delle occupazioni con cui la nipote impegna il suo tempo, giudichi i lavori di ricamo non meno utili dell'abitudine alla lettura, che comunque, come si evince dalle lettere, per Caterina è caratterizzata dai toni lievi del diporto colto.

Lo zio suggerisce alla giovinetta di prediligere libri di storia e di viaggi, e di non lasciarsi catturare dai meccanismi seduttivi di certi «romanzetti». «Io di romanzi ne fo ma non ne mangio», confida l'11 febbraio del 1905, «e so quanto siano perniciosi, anche i migliori, anche i più innocenti [.] per le tenere e inesperte immaginazioni. Il romanzo fa come la lente, ingrossa così male, falsa il giudizio della vita». (foto a sinistra: Cartolina illustrata di Varenna)


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Nel 1764, una raccomandazione simile era stata rivolta a una fanciulla di ragguardevole condizione da Giuseppe Baretti, che dalle pagine della «Frusta letteraria» metteva in guardia la sua giovane lettrice contro i romanzi, giudicati «sciocchezze», cose «bislacche, abbiette, fuori di natura».

Alimentato fin dall'età dei Lumi da pregiudizi di ordine moralistico ed estetico, investito di valenze politiche nel periodo risorgimentale, il dibattito sul romanzo presentava nuove, complesse implicazioni sociologiche tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento. In quel giro di anni, il rapporto con un pubblico più ampio e socialmente stratificato a cui la scrittura romanzesca doveva adeguarsi era il terreno di valutazione di un genere che per le sue caratteristiche si configurava come il tramite di una omogeneizzazione culturale per effetto della quale si andavano assottigliando le linee di de-marcazione tra prodotto alto e basso, elitario e di consumo.

Il gusto per il prodotto letterario "alto" e la consapevolezza del graduale costituirsi di una sorta di circolarità viziosa tra un modo di allestire romanzi guidato spesso dalla sola logica del profitto e un'acritica, incontrollata fruizione di queste opere da parte dei destinatari dal palato più facile, inducevano Verga a stigmatizzare - nelle lettere a Caterina - il potere fascinatorio esercitato sulle lettrici da tante narrazioni "alla moda".

Sarebbero dovuti trascorrere ancora parecchi decenni perché il romanzo - superate le diffidenze, le cautele, le ostilità, le opinioni preconcette che fin dall'origine ne avevano accompagnato la diffusione e lo sviluppo- ottenesse il pieno riconoscimento di uno statuto formale e di una identità comunicativa fondati sul consenso della società dei lettori. Ai nostri giorni, si avverte l'esigenza di riflettere sul ruolo del genere romanzesco nella prospettiva della modernità e di confrontare il portato della tradizione con quanto sta attualmente accadendo nel laboratorio della scrittura.

Resta aperto, come ha osservato Alberto Asor Rosa in un articolo apparso su «la Repubblica» il 18 gennaio del 2002, «il problema di sapere cosa corrisponda oggi a quella che un tempo si definiva, con grande efficacia e peculiarità, la "dimensione romanzesca" del narrare umano». (foto a sinistra: I nipoti Giovannino e Caterina Verga, 1897)

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