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Università e territorio

"Abbandonare conservando"


 
 
01 marzo 2008
di Bruno Messina
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Le architetture del passato sono spesso straordinari "palinsesti" di lenti e complessi processi di trasformazione, avvenuti a causa di mutate condizioni storiche e sociali.
Alcune fabbriche, nel corso del tempo, hanno mantenuto e inglobato strutture preesistenti, adeguandone la disposizione alle nuove funzioni attraverso una  tecnica di ri-significazione spaziale fondata su un procedimento di mutazione tipologica. È il caso della cattedrale di Siracusa, il cui originario impianto periptero è trasformato in basilicale attraverso l'inversione determinata dalla  chiusura degli intercolumni della peristasi e dall'apertura delle pareti della cella dell'Athénaion. Analogo procedimento è utilizzato da Michelangelo che trasforma le terme di Diocleziano in chiesa, mantenendo con interventi minimi, attraverso la trasposizione architettonica del "non finito", suggestioni spaziali e materiche dell'antica rovina.
Il tepidarium diviene, nel progetto michelangiolesco, navata trasversale: l'asse principale, posto sul lato lungo, connette, con simmetrica sequenza,  rotonda d'ingresso e altare centrale, un'innovativa disposizione che inverte il tradizionale carattere longitudinale dell'aula, anticipando di un secolo le soluzioni barocche. 

In altri casi, la fabbrica antica diviene costruzione di nuovi edifici come nel Mausoleo di Adriano e nel Teatro di Marcello o nell'acquedotto romano di Evora, le cui campate sono mutate in abitazioni. Non di rado materie di spolio vengono recuperate (fino al caso limite di fabbriche divenute "cava" per altre costruzioni) dando vita, con un procedimento di ibridazione, a nuovi edifici.
L'idea di un tempo ciclico traduce rovine in architetture, ripristinando - per dirla con Simmel - quel "singolare equilibrio fra la materia meccanica, pesante, che si oppone passiva alla pressione e la spiritualità formativa che preme verso l'alto" (G. Simmel, Die Ruine, in Philosophische Kultur. Gesammelte Essays, Leipzig, Klinkhardt, 1911, traduzione italiana di G. Carchia, in "Rivista di Estetica", 8, 1981, p. 121). (a destra: Emanuele Fidone, Bruno Messina, restauro del convento di S. Maria del Gesù, interno della chiesa, 1996)

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In epoca moderna (da Ruskin e Viollet-le Duc in poi), è divenuto sempre più labile questo complesso rapporto di continuità tra passato e presente insito nei processi di modificazione di molte fabbriche antiche. Esse erano percepite non come testimonianze intangibili ma come materie vive, come exempla che proprio attraverso l'attitudine all'"alterazione" manifestavano la propria vitalità nel tempo.
Questa idea, che vede coincidere progetto di architettura e prassi del restauro, è condivisa, pur con diverse sensibilità, da alcuni tra i più autorevoli architetti contemporanei.
Giancarlo De Carlo, che ha misurato sul piano teorico ed operativo la complessità del rapporto nuovo-antico durante il lungo periodo di lavoro ad Urbino, evidenzia come alcune fabbriche, nel corso dei secoli, riescano ad adeguarsi a nuove funzioni, spesso assai diverse da quelle originarie. Questa capacità, che De Carlo definisce "riverberazione" (G. De Carlo, Urbino. La storia di una città e il piano della sua evoluzione urbanistica, Padova, Marsilio,1966) è la riprova della vitalità di un edificio e segna il limite di ciò che può essere soggetto a riuso e restauro.

Analogamente, Rafael Moneo, in un celebre saggio in cui descrive i processi di modificazione della moschea di Cordova, (R. Moneo, La vita degli edifici e la moschea di Cordova, in La solitudine degli edifici e altri scritti, Questioni intorno all'architettura, Torino-London, Umberto Allemandi & C., 2004), sostiene che è proprio il rispetto dell'identità a rendere possibile la trasformazione di un monumento, garantendone la sopravvivenza.
La posizione teorica di Giorgio Grassi ha un carattere più radicale e assertivo. In un testo del 1971, Il castello di Abbiategrasso e la questione del restauro, egli cita un passo di Ambrogio Annoni del 1929 in cui l'autore sostiene la singolare idea che sia l'edificio stesso a suggerire la strada della sua trasformazione e che, conseguentemente, ogni intervento vada valutato in base al criterio del caso per caso.

Ogni "completamento" necessario per il riuso - ritiene Annoni - deve essere improntato a "schietta semplicità". L'intervento di Grassi sul teatro romano di Sagunto (assai duro nella soluzione) interpreta con coerenza e rigore questa posizione. La rovina nega l'identità originaria del monumento, e il ruolo del progetto è quello di ripristinarla con la ricostruzione del frontescena, la cui assenza aveva determinato una impropria relazione di continuità tra cavea e paesaggio. (a sinistra: Emanuele Fidone, Bruno Messina, restauro del convento di S. Maria del Gesù, nuovo sistema di coperture, 1996)

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Al di là della correttezza dei princìpi, l'esito di ogni intervento sull'esistente dipende dalla sensibilità con cui il  progettista riesce a risolvere  i problemi più rilevanti: la relazione dimensionale tra "completamento" e rudere, il trattamento delle stratificazioni in rapporto al singolare equilibrio che ogni intervento sull'antico intende raggiungere, l'integrazione dei materiali degradati, ecc.
Nel recente "restauro" di un castello, sede dell'archivio di Navarra, Rafael Moneo realizza nuovi volumi ed interviene con ampie e necessarie reintegrazioni. Utilizza la stessa pietra del paramento originario con una tessitura e un trattamento superficiale più astratto conferendo un carattere unitario a tutto l'intervento.
Il dibattito contemporaneo da molti anni ormai tenta con difficoltà di definire ambiti più precisi relativi al complesso rapporto tra conservazione, restauro e progetto.

Rigorose indicazioni di metodo si trovano in un'intervista a Manfredo Tafuri del 1991, pubblicata sul numero 580 di "Casabella".
Tafuri sostiene che conservazione e restauro hanno diverso carattere e differenti finalità. In alcune condizioni, la trasformazione di edifici monumentali può tradirne il valore di mementum. In questi casi l'unico intervento possibile è la conservazione.
Il restauro, quando è indispensabile,  deve configurarsi come processo decisionale dialettico che coinvolga varie professionalità con formazione e ruoli diversi. L'architetto, ad esempio, non ha obbligatoriamente specifiche competenze sulla storia e sulle tecniche costruttive del passato, necessarie al conservatore che lavora solo su fabbriche antiche e, per sua formazione, non costruirà mai nulla.
Questo punto di vista comporta la necessità di una formazione universitaria più mirata e regole più certe che prescindano dall'eccezionalità. Scrive Tafuri: "Scarpa riusciva, anche massacrando un monumento, a darci un'opera di alta validità. Questo avveniva per grazia di Dio, e non tutti hanno la grazia. Difficilmente si può valutare il significato dell'antico se le città non sono moderne. Manca il coraggio di programmare il nuovo là dove esso è possibile e necessario: da ciò deriva la 'libido operandi' sul monumento antico. Senza esperienza della contemporaneità la storia diviene asfittica e si risolve in un capriccio personale".

Questo illuminante pensiero conclusivo di Tafuri trova nuovi rimandi in un più recente saggio di Emanuele Severino che sostiene la necessità di prendere distanza dal passato attraverso un apparente paradosso: "abbandonare conservando", soluzione contro l'ingenuità  di un abbandono che non conserva e di una conservazione che non abbandona.
Egli chiarisce che "il senso autentico del dinamismo fondamentale del nostro tempo.può veramente allontanarsi dal passato solo se continua a guardarne il volto e a sentirne il respiro" (E. Severino, La città e le idee. La questione dei "centri storici", in Tecnica e Architettura, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2003, p.110). (a destra: Rafael Moneo, archivio di Navarra, Pamplona 1996, particolare del paramento murario)

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