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Libri e dintorni

Il grammatico: giudice o notaio della lingua?


 
 
01 marzo 2008
di Salvatore Claudio Sgroi
scsz@libero.it
p 46.jpg

Diciamo subito che il titolo del volume Malalingua. L'italiano scorretto da Dante a oggi di Pietro Trifone, Bologna, Il Mulino 2007, come ogni titolo, crea delle attese, che però (fortunatamente, almeno a giudizio di chi scrive) vengono in questo caso ampiamente (e felicemente) disattese. Ovvero se Malalingua (ossia Mala lingua) può essere (positivamente) ambiguo, è il sottotitolo - o una sua parte (L'italiano scorretto) - ad ammiccare a un approccio apparentemente neo-puristico, ai problemi della lingua, addirittura nell'arco di otto secoli, che in realtà rimane assai marginale in tutto il volume.

Si tratta di un testo (di un "malalinguista consapevole") che spazia su temi, problemi, autori di epoche diverse, accomunati tutti dall'essere testimonianza di una lingua non tradizionale e banalmente canonica, riconducibile pur sempre a regolarità sottostanti, e quindi a una 'grammatica' - privilegiata è quella dell'"italiano informale e parlato" ovvero dell'italiano dell'uso medio o neo-standard (per es. capp. VI, XII) - in quanto manifestazione di bisogni espressivi-cognitivi-comunicativi vari di utenti differenti in luoghi e situazioni comunicative diverse.

Ciò che colpisce subito il lettore di questo testo è la sua notevole leggibilità e (calviniana) 'leggerezza', lo stile particolarmente 'amichevole', non disgiunto dall'irrinunciabile rigore scientifico, privo peraltro di ogni pedanteria accademica. Un testo inoltre "modulare", ogni capitolo essendo perfettamente autonomo, ma nel contempo anello di una catena in 12 capp., la cui lettura sequenziale il lettore può tranquillamente e liberamente alterare, secondo le sue preferenze e curiosità, senza nuocere all'architettura aperta del testo.

La riflessione sui fatti linguistici privilegia (per ben 6 capp.) la lingua letteraria lungo un arco temporale plurisecolare: dal '300 ai giorni nostri, muovendo da Dante (cap. I) con i suoi "plebeismi", le voci popolari e i tabuismi (ess. bordello, cul, fesso, le fiche, merda, merdoso, puttana, puttaneggiare, trullare, ecc.), alla lingua del teatro (cap. III) con i due filoni del realismo (Ruzante, Machiavelli, Goldoni, Pirandello, E. De Filippo) e dell'espressionismo (D. Fo).

E poi la lingua del Verga, autore della Cavalleria rusticana (cap. VI), con le sue pseudo-sgrammaticature, invero specchio di un italiano più medio che non regionale (ess. le frasi foderate o ad eco, le dislocazioni a destra e a sinistra come a me mi dispiace, il che polivalente, il ci ha quattro muli, ecc.). Di matrice naturalmente dialettale come es. di "racconto dialogato" è invece per un lettore sicilianofono, contrariamente a quel che sembra ritenere il non-sicilianofono Trifone, il costrutto sintattico ("articolo determinativo + nome di parentela") Turiddu Macca, il figlio della gnà Nunzia rispetto all'anodino costrutto non marcato Turiddu Macca, figlio della gnà Nunzia: cfr. il sic. Turiddu Macca, u figghiu dâ gnà Nunzia contrapposto all'innaturale (agrammaticale) Turiddu Macca, figghiu dâ gnà Nunzia. (Il costrutto con l'apposizione articolata è peraltro frequente in altri testi verghiani e appare anche ne Il bell'Antonio di V. Brancati: "Calderara, il figlio del Pintu, il nipote di Panciadicrusca, 'u frati d''u Sceccu!").

Un cap. (il VII) è dedicato a I. Svevo drammaturgo plurilingue (tedescofono, italofono, francofono, dialettofono triestino), montalianamente "scrittore di monologo" più che "scrittore di dialogo" con angosce di inferiorità linguistica, per apprezzare il quale è bene - suggerisce Trifone anti-puristicamente - lasciar da parte i metri "idealistici o formalistici" ovvero "dimenticare Rigutini e Fornaciari".

E poi gli scrittori "atipici" trentenni del nuovo Millennio (cap. XI), espressione dell'"italiano tecnopop", per i quali l'A. trova un antesignano in Luciano Bianciardi (1962) autore de La vita agra, ed esemplificati con Pausa caffè di Giorgio Falco (2004), Vita precaria e amore eterno di Mario Desiati (2006), Il mondo deve sapere. Romanzo tragicomico di una telefonista precaria di Michela Murgia (2006), e ancora G. Falco (cap. X) analizzato soprattutto per il "nuovo latinorum" ovvero l'iper-uso dell'angloamericano, efficacemente riassunto nella battuta "Job on call è uno che ti vuol fottere in inglese".

Ma oltre che sulla lingua letteraria quale specchio della langue di una comunità, Trifone punta il suo obiettivo, in altri quattro capitoli, sulla lingua di parlanti comuni prevalentemente dell'800, del Novecento e del terzo Millennio. Il cap. V riguarda infatti l'analisi della lingua, marcatamente regionale-popolare ma anche di tipo medio (cfr. l'es. con il pronominale benefattivo "tutte le persone si stavano ascoltando la messa"), dei compiti di una ragazzina di secondo Ottocento, Checchina Ferri, di Sulmona.

Nel cap. II l'A. si sofferma su "la lingua mercantile e itineraria", acutamente identificata da U. Foscolo, di mercanti, predicatori, attori, viaggiatori non-toscani, dialettofoni nativi, ma obbligati da necessità comunicative a destreggiarsi con un italiano-toscano non-nativo, popolar-regionale, con anticipazioni di usi di scriventi non-letterati nei secoli precedenti.

Nel cap. VIII è analizzata la lingua del cinema soprattutto attraverso una rassegna delle frasi celebri dei film di Totò, Sordi (pseudo-americano), ecc.

Nel cap. IX viene messo a fuoco il linguaggio dei giovani pescaresi, esemplificato con un monologo degli anni Novanta, nella sua diversa stratigrafia (colloquiale, popolare, regionale, gergale, ecc.), per es. sorca, topona, fica 'ragazza molto attraente'; sventrare, impolparsi, ingropparsi, ripassarsi 'possedere carnalmente'; formattare 'sverginare', gnocchetta 'ragazza carina', cazzuto 'grintoso'. Il monologo è arricchito con un questionario di 35 lemmi somministrato a un centinaio di studenti liceali pescaresi (es. schioffare o tonfare 'andare male a scuola, in una interrogazione').

Il cap. IV è invece dedicato a un commediografo e grammatico senese, sei-settecentesco, Girolamo Gigli, espulso per il suo anti-clericalismo, anti-fiorentinismo e anti-cruschismo dalle accademie, e allontanato da Firenze e Roma, il cui Vocabolario cateriniano, in senese trecentesco, fu addirittura gettato sul rogo.

Infine, l'ultimo cap., il XII "L'italiano di oggi tra norma e uso", ricco di dati e spunti teorici, è l'occasione per l'A. per dichiarare la sua opzione metodologica apparentemente neo-puristica.

In questo cap. l'uso (dei parlanti) è contrapposto - tradizionalmente - alla norma (dei grammatici). Ma "l'uso" - si può obiettare - è in realtà possibile solo perché implica delle "regole costituive" da parte dei parlanti, grazie a cui essi si intendono, e la "norma regolante" dei grammatici ha qualche credibilità solo se rispecchia "le regole" dell'uso dei parlanti, differenziati socialmente e quindi guidati da "regole" diverse, tra loro in competizione.

Censurati saranno quindi gli "usi" non-comunicativi dei parlanti di qualunque classe sociale o gli usi pur comunicativi ma di classi socialmente e culturalmente distanti (sub-standard), più tolleranti risultando invece le improprietà individuali (idiolettali) di parlanti non-popolari a livello di registro o scelte settoriali.

Invero, la nozione di errore, per come è formulata nel testo, ci sembra un po' generica dato il riferimento a un idealistico "popolo": "Gli errori linguistici sono trasgressioni della norma codificata da una società di parlanti, violazioni di un sistema di valori condivisi nel quale un popolo [?] tende a riconoscere uno dei simboli della propria identità collettiva".

L'apparente neo-purismo dell'A. è ben rappresentato nelle pagine finali del cap., dove il potere linguistico (per noi illusorio) e il prestigio dei grammatici è equiparato a quello (per noi invece reale) dei parlanti (colti non-subalterni). Egli propone infatti di definire "standard" una varietà se essa gode da un lato (a) della "codificazione" da parte dei grammatici e dall'altro (b) della "diffusione" presso i parlanti, ossia se è accertata "la tendenza di un tratto ad affermarsi ed espandersi", il che non è mai facile da rilevare.

Tale concezione è esemplificata con sei tratti dell'italiano neostandard. Così per es. l'imperfetto indicativo del periodo ipotetico della irrealtà (es. se potevo venivo) è documentato in Google ("enorme collettore di lingua scritta") - ricorda l'A. - 37 volte rispetto alle 17 volte del congiuntivo (se avessi potuto sarei venuto), mentre nel Lessico Italiano Parlato demauriano "nei casi di possibile concorrenza tra i due modi verbali, il congiuntivo è comunque meno frequente dell'indicativo, preferito tre volte su cinque".

Ma "le grammatiche - puntualizza Trifone - concordano nell'escludere [il tipo con l'indicativo] dalla lingua scritta, mentre sono più possibiliste per quanto riguarda la lingua parlata". "Nella lingua parlata l'indicativo tende a sostituire il congiuntivo. [...] Naturalmente in un registro sorvegliato è bene usare il congiuntivo anche in questi casi" si legge per es. in P. Trifone - M. Palermo, Grammatica italiana di base, Zanichelli 2000.

Il costrutto quindi non rientrerebbe ancora nell'italiano standardizzato.

A nostro giudizio, invece l'equiparazione del grammatico al parlante nativo colto e l'attribuzione del potere di legittimazione degli usi dei parlanti al grammatico sono poco sostenibili e un tantino velleitari. La legittimazione degli usi si realizza nel momento in cui i parlanti colti decidono di mettere in campo un determinato costrutto. I grammatici possono solo (a nostro giudizio) constatare e registrare - da notai oggettivi - tali usi.

Il loro compito specifico - irrinunciabile e prioritario - è piuttosto quello di spiegare in termini di teoria linguistica (sociolinguistica, pragmatica, ecc.) il perché di quel costrutto e di quell'uso.

Peraltro, se - a nostro giudizio - lo studio della teoria grammaticale ha funzione essenzialmente "cognitiva", si può concordare con l'A., che "riflettere sulle regole della lingua può contribuire a semplificare e razionalizzare il lavoro dell'apprendente" e forse meno "a contrastare il rischio sempre presente di una produzione approssimativa e ibridata", come invece ritiene l'A.

In conclusione, un grammatico-linguista, notaio e teorico della lingua e del linguaggio è l'identità che rivendichiamo rispetto a quella del giudice (al di sopra delle parti?) di questo o quell'uso linguistico.

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