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Facoltà

Le "lettere strappate" di Lia Levi

La scrittrice nell'ateneo catanese per un seminario su Ebraismo e modernità

 
 
16 aprile 2007
di Andrea Manganaro
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La letterina scritta  da una bimba e lacerata in pezzi sempre più piccoli dalla madre. Per l'errore commesso, per la confessione resa in apertura: «Cara radio, sono una bambina ebrea». E la sorridente, ma perentoria correzione rivolta alla figlia: «Non sei una bambina ebrea, hai capito? [.] Sei una bambina. Una bambina e basta».

Con una lettera strappata e un'ammonizione materna, nella Roma del 1944 appena liberata dal nazifascismo, si conclude Una bambina e basta, romanzo d'esordio (1994) di Lia Levi. Per l'Università di Catania non un semplice nome, né una presenza effimera, quelli della scrittrice romana, di famiglia piemontese, ripetutamente invitata a testimoniare sui nessi storia-narrazione (nel 2005, nel seminario Narrare la storia, a Scienze Politiche, con la partecipazione di storici, letterati e sociologi del nostro ateneo), ebraismo-memoria. A lei, lo scorso marzo, è stato affidato il compito di  avviare il ciclo di seminari su Ebraismo e modernità, tra politica e religione, promosso dalla  Facoltà di Scienze Politiche, su iniziativa della cattedra di Storia del pensiero politico, con l'apporto del  settore Circuiti Culturali dell'Università di Catania. E a buon diritto. Lia Levi, per trent'anni direttrice della rivista «Shalom», rappresenta un'importante testimonianza culturale dell'ebraismo italiano, tra storia, narrazione, memoria: per le discriminazioni razziali che, bambina, vide e subì; per il palese autobiografismo del suo primo romanzo; per il valore memoriale della sua ampia produzione narrativa. «Essenzialmente autobiografica» è del resto la «scrittura ebraica d'Italia, supposto che se ne possa effettivamente parlare» (così E. Loewenthal). Non è però il «molto amore di se stessi» (di cui parlava Vittorio Alfieri) a motivare le narrazioni autobiografiche degli ebrei supersiti. Sul bisogno individuale del raccontarsi predomina infatti la necessità di attestare che «questo è stato», di protrarre la memoria nel futuro. Un autobiografismo necessario, con un mandato sociale, tanto più urgente per il progressivo ridursi dei "salvati", di coloro che, del filo della memoria, tengono ancora un capo.


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Quel titolo (Una bambina e basta), condensa il dramma vissuto da Lia Levi, narrato con lo sguardo straniante della bambina che era. In quella ingiunzione materna, in quella brusca interruzione della sua confessione spontanea si raggruma l'incubo passato, ma anche il riscatto da esso, l'istanza di una ripristinata normalità, della libertà di «non differenziarsi». Perché, innanzi tutto (prima dell'espulsione dalle scuole, dalle università, dal lavoro; prima della consegna ai nazisti, della deportazione nei campi della morte) questo avevano fatto le leggi razziali, volute dal fascismo, sancite dalla monarchia (e loro perenni colonne infami): avevano «rifabbricato un gruppo "ebrei"», che nel 1938 in Italia, come entità separata, non esisteva più. Avevano ricostituito «in astratto» un insieme, strappando gli uomini alla loro individualità. E aveva determinato, questa operazione di burocrazia anagrafica, la mostruosità di colpire «non le azioni responsabili delle creature umane, ma il delitto di essere nati». «L'ebraismo degli ebrei» italiani più che il «contegno sociale», toccava infatti la sfera riservata dei sentimenti riconducibili alla «zona dei pudori»:«un sentir nascere dal fondo [.] vecchie cantilene sinagogali, udite al tempo dell'infanzia [.] un abbracciarsi con le ombre dei limbi [.] e un segreto di inenarrabili malinconie». Sono le struggenti parole di Giacomo Debenedetti (Otto ebrei), rievocate da A. Di Grado in Giuda l'oscuro.

Con il 1938 inizia Una bambina e basta: con l'irruzione dell'assurdo della storia nella vita di una bimba di sei anni, indisturbata nei suoi giochi dalle prime corrusche minacce. La scrittura autobiografica assume la forma della registrazione diretta, è il presente di una bambina che avverte i fatti nel loro svolgersi, senza la riflessione di chi ne conosce già tutto il tragico svolgimento. E il racconto si snoda veloce nella descrizione dei momenti in cui la storia entra nella sua vita, mutandola. Sino alla drammatica svolta di quel «giorno d'ottobre» (del 1943) a Roma, in cui apprende dai genitori la notizia della retata nazista nel ghetto e scopre l'angoscia dell'insicurezza («allora non era vero, voi non eravate l'angelo del Signore che ci protegge con la sua spada di fuoco»!). Non è l'irresoluto padre a salvarla, ma la pragmatica madre-tigre che «contende alla vita ogni boccone». Nascosta in un convento di suore (dove la sera il coro di antiche preghiere ebraiche «volteggia ai piedi della Madonna di terracotta») è tentata di preferire al «Dio ebraico sempre arrabbiato, quello buono dei cristiani». Ma scopre anche l'abiezione umana in insospettabili Giuda limitrofi: vicini di casa che consegnano alle SS due bimbe, a pochi giorni dalla liberazione.

Nei successivi romanzi la Levi si emancipa dall'autobiografismo, non è più tenuta  «per mano dai fatti» vissuti in prima persona, e le sue scritture diventano finzione romanzesca. Un processo già attestato esemplarmente da Primo Levi, approdato a Se non ora, quando?, dopo 35 anni di  «autobiografismo camuffato o aperto». Seppur inventate, le "storie" di Lia Levi rimangono sempre strettamente connesse al moderno fato, interamente e colpevolmente umano: la storia che muta in tragedia le vite di tanti ebrei italiani. In Tutti i giorni di tua vita il narratore assume il punto di vista di una casa, da dove l'"autobiografia della nazione" viene ripercorsa nelle vicende di una famiglia ebraica: dalla salita al potere del fascismo, dalla sua iniziale accettazione, al riconoscimento del suo vero volto, alla guerra, alle deportazioni. Gli eventi della storia entrano, nel loro succedersi cronologico, nella quotidianità dei personaggi, fino al tragico epilogo. E anche oltre, con una testimonianza che si proietta nel nostro tempo: la labile denuncia del nome della delatrice affidata ad un biglietto nascosto nella casa; ritrovato, ma non più compreso, nei nostri giorni distratti e immemori. E pertanto, ricordo ormai insignificante, «buttato via».


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Affrancatasi dalla dimensione soggettiva dell'attestazione individuale, la narrazione della Levi è sempre percorsa dalla necessità di rammentare l'«uscita dall'Egitto tutti i giorni della tua vita». Ma anche di richiamare alle responsabilità individuali. In L'albergo della magnolia tale istanza è ancora una volta affidata ad una lettera. Una lettera scritta, non spedita, ("strappata"?) dove solo in conclusione si dichiara il destinatario: il figlio, nato da matrimonio misto, per il quale il padre ebreo, sparito dalla sua vita per sottrarlo alle leggi razziali, fa rinascere, narrando, il passato. Anche in questa finzione romanzesca è la storia a mutare il destino degli uomini. Sono però comunque loro, gli uomini, a distinguersi nelle azioni con cui ad essa sanno «resistere»: «In certi periodi è la Storia a comandare e a dettare la sua legge. Ma ci sono tanti modi per obbedirle. O per subirla. In quegli anni, quando "lei", la Storia, dava gli ordini, c'è chi è stato [.] pronto a soccombere e chi capace di strappare barlumi di dignità».