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Scienza e mass media

Sulla divulgazione

Apriamo una discussione, nell'accademia e non solo

 
 
16 aprile 2007
di Graziella Priulla
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Chi studia la divaricazione tra la centralità dei temi di interesse pubblico e la gerarchia della loro rilevanza mediatica parla di un dialogo tra sordi tra i protagonisti del dibattito scientifico da un lato, i giornalisti e i dirigenti dei media dall'altro. Complesso è il rapporto tra i due mondi, con una certa irriducibilità reciproca che è un fatto di metodo, di impostazione dei problemi: esempi possono essere le false correlazioni, per cui la stampa spesso indica come dimostrate inferenze le semplici associazioni casuali o le deboli correlazioni, o i dati provvisori e parziali, che vengono spesso avvalorati come "risultati" di una ricerca.

Il lavoro di chi opera sulle dinamiche di lunga durata - si pensi alla ricerca biotecnologica, oppure a quella sull'ambiente - non riesce ad arrivare in modo sistematico ad un'opinione pubblica "drogata" dall'abitudine e dal bisogno dell'evento dirompente.

Determinante è la variabile tempo: i media sono inadatti a gestire un'informazione che si basi sulla memoria delle serie, piuttosto che su quella della cronaca. Ancor più determinante è il sensazionalismo: pur di far colpo, i giornali e le televisioni ci martellano con ondate esasperate, a seconda di casi presto dimenticati o di mode presto sostituite (si potrebbero fare molti esempi, dalle terapie miracolose agli allarmi per questa o per quella pandemia). Si diffondono notizie poco controllate, si amplificano supposizioni, si esasperano boatos, giocando sull'irrazionalità collettiva. Si concretizzano spinte alterne, raramente fondate su un'oggettività, spesso giocate sulla forza della paura, sempre orientate al consenso.

La scienza va incontro ad una crescente spettacolarizzazione: "Frankestein in tavola", "la scienza inquietante", oppure "la scienza che fa miracoli". quale redattore si sottrae al fascino delle metafore ad effetto, agli imperativi dell'emozionalità?


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Sarebbe troppo facile ridurre la questione alle abitudini sciatte dei giornalisti. Non bisogna esagerare nella critica all'informazione, dimenticando che essa è orientata come il senso comune, la cui prospettiva è preferibilmente di tipo apodittico o dicotomico, ben diversa da quella riflessiva e dialettica della scienza. Tra i due orientamenti c'è tensione, se non contrapposizione, strutturale. Il problema è che la presenza pervasiva dei media, anziché cercare di attenuare le distanze, le accentua.

Altre difficoltà strutturali riguardano gli scenari più complessivi. Ben pochi dei presupposti della scienza moderna sono entrati nell'immagine popolare di ciò che la scienza è: spesso dominano ancora i connotati della "certezza", del "controllo", vicini alla "capacità di previsione" che nel '700 affascinava Laplace e che non ha smesso di suscitare illusioni.

Il ricercatore non può e non deve sbandierare "verità" che non possiede, ma è continuamente sollecitato a fornire pillole semplificatorie, che verranno usate di volta in volta come eccitante o come tranquillante. Per parte sua una parte del mondo della ricerca, non indenne da narcisismo mediatico, appena conquista un primo risultato scatta nella corsa a mandarlo in pasto ad agenzie di stampa, giornali, tv. Tra le notizie che lì arrivano, è prevedibile che saranno privilegiate le più nette, che sono spesso le meno affidabili. Le più "rivoluzionarie", che quasi sempre non lo sono. Si ingenera una sete di "scoperte" e di scoop che fa lievitare i titoli ma che non aiuta a capire: il circuito si autoalimenta.

Nell'ottica giornalistica, le ricerche vengono pubblicizzate in funzione degli effetti che promettono di avere sull'immaginario collettivo (come talvolta - purtroppo - le scelte della classe politica). La scelta degli "esperti" da intervistare è spesso legata a motivazioni interne alle routines giornalistiche (disponibilità, popolarità, telegenia, ruolo pubblico) piuttosto che alla competenza. Troppo spesso le fonti sono gli uffici di PR delle industrie (i cui interessi non coincidono con quelli della collettività).

D'altronde la scienza stessa cede al sensazionalismo, poiché gli scienziati devono competere - per avere finanziamenti - anche sul piano della visibilità, e la pubblicità nei grandi mezzi vale ormai di più di una pubblicazione su una rivista seria, più di un encomio accademico (per questo motivo molti istituti di ricerca si sono dotati recentemente di uffici stampa). Nel mondo anglosassone è stato coniato un termine per indicare quel genere di ricerca che corre dietro alle "emergenze" politico - mediatiche, cercando di rispondere alle ansie del momento invece di seguire percorsi sensati dal punto di vista interno alla scienza: ambulance chasing science.

Nello scarto dei saperi si nasconde poi un problema annoso, che riguarda ogni tipo di divulgazione: come spiegare senza annoiare? Come si fa a parlare di cose difficili rendendole accessibili ad un pubblico non competente, tanto più oggi, nell'era dell'iperspecializzazione? La questione dei rapporti tra "esperti" e "gente comune" si pone ormai quotidianamente.


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L'asimmetria non è relativa solo agli enunciati scientifici, al loro grado di comprensibilità: è scarto tra visioni del mondo, "circoli ermeneutici". Entrano in gioco, oltre alle differenze di linguaggio (Cfr. C.Bernardini - T.De Mauro, Contare e raccontare. Dialogo sulle due culture, Laterza, Roma - Bari, 2003), le difficoltà di consultazione delle fonti (e la disabitudine alla verifica delle stesse), la complessità delle reti di conoscenze da possedere, la parcellizzazione talvolta parossistica dei campi di ricerca. Entrano in gioco rappresentazioni sociali, sistemi simbolici, organizzazioni dei campi cognitivi.

Una concezione canonica della comunicazione scientifica la riduce ad un continuum, scienza - mediazione - società: come se ciascuno di questi poli fosse un insieme omogeneo; come se le traiettorie fossero lineari. La realtà è più complessa. La massa dei contesti e degli orizzonti di significati è tale e tanta, che umori, sentimenti, paure, calcoli, interessi, abitudini, linguaggi, ragionamenti si incrociano, si sovrappongono, si confondono.

E' un passaggio delicato, oggi più che mai.

Gli strumenti cui affidavamo la speranza di un futuro migliore, le prodigiose applicazioni dell'intelligenza umana, ora ci inquietano. La consapevolezza dei limiti del pensiero scientifico, del suo carattere parziale e provvisorio, delle sue contraddizioni; il dibattito sulle condizioni di produzione e di legittimazione delle sue "verità", superano l'ambito chiuso degli addetti ai lavori.  

Se in un tempo non lontano gli indirizzi generali e le singole piste di ricerca erano appannaggio della comunità scientifica, ora che l'impatto della scienza e della tecnologia sulla vita di tutti è diventato così evidente, i gruppi in cui se ne dibatte sono molto più allargati, e la necessità di trovare un linguaggio comune diventa esigenza sociale ineludibile.

Anche questo è uno dei terreni in cui si misurano la qualità di una democrazia avanzata e la civiltà di un paese moderno.

Non c'è bisogno di ribadire il ruolo essenziale giocato dall'informazione. Il tempo d'oggi richiede all'arena dei mass media di passare "da strumento di riduzione di complessità a luogo d'esposizione della riflessività" (C.Sorrentino, Ridare senso a un giornalismo in evoluzione, "Problemi dell'informazione", 1, 1998, p. 228): è comprensibile che sia incerto il cammino, ma è altrettanto giustificato l'allarme di chi paventa che la direzione intrapresa in Italia, sotto la spinta della commercializzazione selvaggia e della parossistica rincorsa agli ascolti, sia esattamente opposta.