La programmazione economica e la prospettiva di un intervento dello Stato al fine di garantire i servizi sociali essenziali, l'eguaglianza delle opportunità, l'affrancamento del mercato da trust e cartelli, erano condivise da un vasto raggio di forze politiche che andava dai partiti d'ispirazione socialista a quelli di matrice cristiano-sociale o liberal democratica. La differenza fra le varie posizioni stava nei tempi e nelle modalità operative.
L'adesione di alcuni governi a politiche economiche di stampo statalista non significava affatto, come ha sostenuto Fitoussi, che essi si fossero convertiti a mettere in pratica le ricette formulate da Keynes o dai neokenesiani per mantenere la domanda aggregata a un livello tale da utilizzare tutte le risorse, variando le imposte e la spesa pubblica. Tuttavia, vennero adottate, nei vari paesi, alcune nazionalizzazioni e vennero delineate le prime misure di Welfare State: in Francia, all'insegna dell'Etat patron e di una forte tradizione normativa dell'amministrazione pubblica; in Olanda, dietro l'insegnamento della scuola di Tinbergen, in Belgio, sull'onda del planismo; nei paesi scandinavi, per l'impegno dei partiti socialdemocratici.
La ricostruzione post-bellica avvenne così non solo sotto l'egida dell'assistenza americana ma anche all'insegna di una strategia riformista volta ad associare democrazia politica e sviluppo economico. Per tutti i paesi dell'Occidente europeo, ma ancor più per l'Italia, l'apertura verso l'esterno rappresentava una scelta prioritaria.
A tornare in auge in politica economica furono le idee dei liberisti, non tanto per loro coerenza dottrinaria, quanto per l'abilità strategica e il lucido disegno politico-economico perseguito da Einaudi e condiviso da De Gasperi. Luigi Einaudi, allora governatore della Banca centrale, riteneva che "l'Italia sarebbe stata ricostruita e rinnovata nella libertà. quanto maggiori e durature sarebbero stati i suoi legami economici con le democrazie occidentali". Certo, la scuola liberista non riuscì ad informare del tutto la cultura politica della nuova classe dirigente stretta tra la rigida visione liberista e l'anelito per l'europeismo e per una progressiva democratizzazione. La prima realizzazione concreta nel processo di unità europea si ebbe nel 1951 con la creazione della Ceca che aveva il compito di coordinare produzione e prezzi nei settori-chiave dell'economia. Gli esiti positivi della Ceca spinsero i governi a proseguire sulla strada di un accordo che, accantonando i progetti più ambiziosi di "Stati uniti d'Europa", consentisse almeno un coordinamento delle politiche economiche e la creazione di un'area di libero scambio.
Nel marzo 1957 si giunse così, dopo anni di intense trattative diplomatiche, alla firma del Trattato di Roma, fra i rappresentanti di Francia, Italia, Germania federale, Belgio, Olanda e Lussemburgo, che istituiva la Comunità Economica Europea (Cee). Scopo primario era quello di creare un Mercato Comune europeo (Mec), mediante il graduale abbassamento delle tariffe doganali e la libera circolazione della forza-lavoro e dei capitali, ma anche attraverso il coordinamento delle politiche economiche e l'intervento in favore delle aree depresse.
Sul piano economico, la Cee conseguì risultati di un certo livello, conferendo nei primi anni sessanta un forte stimolo alle economie dei paesi membri. Diversamente, sul piano politico, la spinta all'integrazione subì dei rallentamenti a causa delle specificità locali e degli egoismi nazionali, tanto è vero che ancora oggi restano forti le divisioni sulla Costituzione europea. Proprio per questo, in occasione della celebrazione del mezzo secolo di Unione, Angela Merkel - presidente di turno Ue - ha convocato a Berlino i capi di Stato e di governo dell'Unione per approvare una "Dichiarazione" destinata a sancire il rilancio dell'Ue e la fine dell'impasse nella riforma istituzionale e "per porre l'Unione europea su una rinnovata base comune".
In altre parole, un monito al passaggio dall'integrazione economica all'integrazione politica; un passaggio non facile, in un momento in cui l'entusiasmo per l'Europa si è affievolito (anche dietro il doppio no franco-olandese alla Costituzione europea), le regioni avanzano la richiesta del riconoscimento del loro ruolo "centrale e motore", e in Italia monta la polemica sulle "radici cristiane" dell'Europa e "sulla propria identità". L'Europa che riparte da Berlino si trova a dover affrontare, oltre la questione della propria identità, altre sfide; dal ripensamento dell'idea di Europa all'allargamento alla Turchia, dalla petizione all'instaurazione di una "giusta laicità", all'insegna del dialogo con l'islamismo e l'ebraismo, alla garanzia del rispetto della volontà popolare e dell'istituzione di un'Università Europea.