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Memoria d'Ateneo

Un maestro e una scuola

Ricordo di Carlo Muscetta (Ia parte)

 
 
16 aprile 2007
di Nicolò Mineo
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Vidi per la prima volta Carlo Muscetta un giorno dell'autunno 1963. Di spalle, nella piccola unica stanza in cui erano allocati, nel Palazzo centrale dell'Università, l'Istituto di Italiano e l'Istituto di Filologia romanza, e non osai farmi avanti, rimanendo sulla soglia, a presentarmi.  Non volli disturbarlo mentre osservava i libri stipati nelle antiche scaffalature. E non si accorse di me. Mi colpirono i suoi capelli bianchi, che, cinquantenne, lo invecchiavano non poco. Era venuto a conoscere le persone e l'ambiente in cui si sarebbe trovato a operare di lì a qualche settimana, chiamato a succedere a Figurelli nella cattedra di letteratura italiana. Un solo professore ordinario allora. Se non lo avevo mai incontrato, la sua opera e la sua personalità ovviamente mi erano ben note. Sin dal tempo del Liceo la più bella antologia della letteratura italiana, allora come oggi, è Gli scrittori d'Italia di Luigi Russo. Mitico il direttore, straordinari i curatori dei singoli secoli, tutti destinati a divenire a loro volta maestri. Muscetta aveva curato il Quattrocento, che sarebbe piaciuto a Croce. Una scrittura densa la sua e una forza di lettura che trapassava l'oggetto e lo prospettava in una luce insolita, straniante si sarebbe detto poi. Un giovane liceale poteva ricavarne la sicura percezione di una maniera di comprendere non usuale tra i critici.

I primi anni Sessanta per l'Università furono tempi di grande e crescente prestigio. La generazione della fine degli anni Quaranta era ormai tutta dentro al miracolo economico e alle realtà determinatesi con gli esperimenti governativi di centro-sinistra e, più in là, col loro fallimento. Ma era anche dentro alla nuova condizione del mondo, che dall'inizio degli anni Sessanta - papa Giovanni, John Kennedy, Nikita Chruscëv - conosceva una progressiva distensione e vedeva farsi sempre più lontano l'incubo della guerra nucleare. Mentre la scolarizzazione superiore era in sensibilissimo aumento. La distanza dalle generazioni più anziane, dalle famiglie e dalle istituzioni si andava accentuando, anche se non subito al punto di rottura. Da ciò il bisogno di acquisire una cultura nuova, strumenti diversi per orientarsi nella nuova situazione. Si sarebbe determinata lentamente nei giovani una condizione di disagio. Un disagio che si diffondeva sempre più ampiamente e capillarmente e si canalizzava a volte sia verso processi di presa di coscienza e di elaborazioni teoriche estremistiche sia verso forme anomiche di comportamenti violenti.


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Nell'Università gli studenti si attendevano molto dai professori più giovani o di formazione diversa da quella tradizionalmente accademica o che si mostrassero politicamente impegnati. O tutte queste cose insieme. Muscetta, per la sua cultura, per la ricca esperienza di uomini e cose che lo aveva nutrito, per le sue doti carismatiche, era l'uomo più adatto a venire incontro alle attese di una relazione più diretta tra studio e saperi e conoscenza della realtà sociale e politica italiana e a stabilire un rapporto di insegnamento-apprendimento non formalistico, ma in un certo senso diretto e personale.

Non era solo il critico letterario, accademico e militante. La politicità era elemento costitutivo di base della sua personalità. Aveva conosciuto l'illusione di molti giovani negli ultimi anni della dittatura fascista di realizzare finalmente un programma di rinnovamento della società e della cultura in senso antiborghese e anticapitalistico. Il mito della direzione statale dell'economia e della «terza via» tra sistema liberale e sistema sovietico. Si tentò, con Bottai, e quindi con tutti i trasformismi e le contraddizioni di questo personaggio, di dislocare quel tentativo di rinnovamento anche nel campo della cultura e della scuola. I successi non mancarono, ma nel senso che molti intellettuali, intermedi e di vertice - artisti, architetti, musicisti soprattutto ma anche, sia pur con forti limiti, letterati e scrittori - accettarono di avere un punto di riferimento nelle istituzioni del fascismo. Senza che ciò implicasse piena adesione al mito della nuova Italia e in una condizione di ambiguità ed equivoco. Furono attratti molti giovani, che, anche attraverso la presenza ai littoriali, - parteciparono e raggiunsero i livelli alti delle classifiche  i Moro come gli Ingrao, i Guttuso come i Binni e Fortini e Alicata, ma quasi tutti i giovani intellettuali emergenti -, credettero di poter esprimere posizioni intrinsecamente antifasciste. Gli avvenimenti della fine degli anni Trenta e la guerra avrebbero chiarito limiti, approssimazioni ed equivoci.


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Muscetta però era sempre rimasto saldo sui fondamenti culturali antifascisti, degli anni liceali e universitari, che gli venivano dalla lettura di De Sanctis, dalla lezione di un Dorso e di un Croce, dal magistero di Luigi Russo, dal contatto con esponenti di Giustizia e Libertà, dall'ambiente torinese ed einaudiano. Quel Croce che avrebbe voluto integrare a De Sanctis prima e poi anche a Gramsci, in un rapporto di adesione e insoddisfazione, di devozione e disillusione. Da questo ricco e vario mondo di esperienze culturali aveva dedotto una visione generale ispirata a istanze libertarie, democratiche e, con una sua parola, «comunisteggiante» e un meridionalismo travagliato e, vorrei dire, etico. Il suo accostamento a Bottai, anche con la collaborazione, ma di tipo «frondista», alla rivista "Primato", fu sempre improntata alla necessità della «dissimulazione onesta», in una sorta di giuoco, certo non facile e non esente da rischi, degli equivoci e delle ambiguità, dal momento che lo stesso ministro fascista intuiva il vero pensiero del giovane intellettuale. Collaborarono anche Antonello Trombadori e Mario Alicata e, per ricordare solo letterati, Walter Binni, Gianfranco Contini, Enrico Falqui, Francesco Flora, Mario Praz, Pietro Pancrazi. Era in generale la prassi del «doppio binario». Su questa piattaforma si sarebbero innestate la scelta azionistica e poi l'esperienza all'interno del Partito comunista. Il collante era stato ed era uno spirito sempre e ovunque contestativo e libertario. Tanto che il 1956 e i «fatti di Ungheria» lo videro attivamente polemico nei riguardi dell'intervento sovietico, promuovendo sulla rivista da lui condiretta, "Società", una famosa raccolta di firme di intellettuali contro. Uomo dalla parte dei diritti e delle libertà, della giustizia e dell'eguaglianza, in una parola dalla parte della dignità e dell'autenticità.

L'uomo giusto al posto giusto nel tempo giusto, in una Catania che tentava di uscire dal torpore e dalla chiusura clericaleggianti e parafascisti del dopoguerra. Il suo far lezione, pur in aule gremite di centinaia di studenti e di un nutrito manipolo di allievi, si può definire diretto e, appunto, personale. Cioè, Muscetta faceva lezione con una tale pienezza di coinvolgimento soggettivo, emotivo e intellettuale, che era come se parlasse di sé, delle sue speranze e dei suoi sdegni a ognuno di quei giovani, che seguivano intenti e a loro volta individualmente coinvolti. Riusciva a trasmettere agli studenti la sua carica ideale e ideologica e il suo bisogno di cambiamento e trasformazione. Si costituiva nel tempo della lezione quella consonanza tra chi parla e chi ascolta che mi piace chiamare spirito di comunità. Tutt'altro che ascetico e cenobitico però, anzi polemico e combattivo (nella foto a fianco, l'esame di laurea di Rosa Maria Monastra, 1968: da sinistra a destra si riconoscono i professori Corsaro, Piccitto, Curti, Muscetta, Manacorda, Panvini).

Gli anni dal 1963 al 1968 furono certamente segnati a fondo nel mondo universitario e culturale catanese da questa presenza. Una presenza ovviamente spesso scomoda e inquietante. E perciò non mancarono gli ostracismi delle Istituzioni e del mondo accademico più tradizionale. Il blocco di potere che aveva controllato la vita della città era compattamente mobilitato. Ma ugualmente nella Facoltà di Lettere si avviava un processo di ammodernamento, accelerato ben presto dall'entrata di Giarrizzo in Consiglio di Facoltà. Sarebbero stati chiamati via via intellettuali della statura dei Manacorda, Candeloro, Bulgheroni, Bertoni Jovine, mentre si istituivano nuovi insegnamenti - come non ricordare quello di Lingua e Letteratura russa coll'impareggiabile Giorgio Kreiski - e si cooptavano a vari livelli elementi della nuova generazione. Tutto ciò naturalmente si sarebbe accentuato col Sessantotto.

Ma la lezione di Muscetta implicava insieme e anche un livello altissimo di magistero metodologico, un magistero fatto di geniale, fervida e multiprospettica elaborazione critica, che immetteva nell'alveo dello storicismo e del marxismo classico, gramsciano per molti riguardi, le suggestioni del marxismo critico, del sociologismo francofortese, della linguistica e dello strutturalismo. Questa sua  lezione si espandeva e riproduceva a macchia d'olio tra collaboratori e allievi, quelli che amo chiamare, evocando un grande modello di scuola, i «ragazzi» di Palazzo Sangiuliano: Gaetano Compagnino, Guido Nicastro, Mario Tropea, Marcella Tedeschi, Rosario Contarino, Rosamaria Monastra, Mimmo Tanteri, Giuseppe Savoca, Sarah Zappulla Muscarà, Rosalba Galvagno, Gisella Padovani, Rita Verdirame, Grazia Maria Bellia, Antonio Di Grado, Nunzio Zago, Silvano Nigro, Edoardo Melfi, Fernando Gioviale, il linguista Salvatore Sgroi. Una prima e una seconda generazione all'interno di questo gruppo, di cui altri ancora fecero parte, ma per breve tempo. Chi scrive, tra questi, era il «vecchio», con una storia catanese-pisana e di magistero tra Grabher e Russo già tutta alle spalle. E consegnato da Figurelli, come pure Compagnino e Tropea. Le più diverse storie personali quelle degli allievi ricordati. E le più diverse provenienze culturali, e anche geografiche. Uno specifico ricordo spetta, perché il non essere più in vita conferisce una sorta di diritto, a due di loro. (segue)