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Facoltà

Greci e Turchi fra storia e letteratura

Un ciclo di seminari organizzato dalla Facoltà di Lettere e filosofia

 
 
27 maggio 2007
di Andrea Manganaro
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Da anni l'Università di Catania realizza all'estero missioni archeologiche di notevole rilevanza: in Turchia, a  Kyme; a  Creta (Priniàs); a Cipro (Paphos). Nomi, questi, che ai non specialisti evocano immagini di un passato lontanissimo, che sconfina nel terreno fabuloso e fascinoso del mito (il cretese Minosse, o la "Cipride", Afrodite).  Eppure quei luoghi del Mediterraneo orientale, dove l'ateneo catanese esplica un ruolo di primo piano nel valorizzarne i siti archeologici, sono anche stati, in un recente passato, scena di drammatici eventi storici. Avvenimenti poco noti in Occidente, e nondimeno di importanza decisiva,  non solo per i popoli direttamente coinvolti, greci e turchi, ma per l'assetto politico del bacino del Mediterraneo, e la fisionomia stessa dell'attuale Europa. Kyme, ad esempio,  una delle più antiche città della costa dell'Anatolia,  sorge vicino a Smirne. Quell'area geografica è stata teatro di  uno degli episodi decisivi di un confronto plurisecolare: la schiacciante vittoria turca, nel 1922, sull'esercito greco (sbarcato in Anatolia all'indomani della prima  guerra mondiale), i massacri di Smirne (l'attuale Izmir), l'esodo greco. Fu, d'allora in poi, per  i greci, la "Catastrofe" per antonomasia. Un evento epocale per entrambi i popoli, data spartiacque nella periodizzazione storiografica,  segno netto di una fine e di un inizio: il definitivo abbandono, da parte dei greci, di una terra da loro abitata per millenni; la fondazione, sulle macerie dell'Impero ottomano e in conseguenza della vittoria sui greci, della Repubblica turca di Kemal Ataturk, nel 1923. Eventi della grande Storia che sconvolsero il destino di milioni di individui e di antichissime comunità: la disfatta ellenica del 1922 determinò infatti la forzata migrazione in Grecia di tutta la popolazione cristiano-greca dall'Anatolia e dalla Tracia orientale (1.500.000 persone) e, con movimento inverso, di tutta la popolazione musulmano-turca dalla Grecia verso la Turchia (circa 800.000).  


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La storia moderna dei rapporti fra greci e turchi, prima e dopo la "Catastrofe", di fondamentale interesse per la configurazione della stessa Unione Europea e le prospettive del suo allargamento verso Oriente, è stata oggetto di seminari organizzati di recente dalla Facoltà di Lettere e Filosofia (Oriente e Occidente. Incontri e scontri fra Grecia e Turchia). Su questo tema sono stati invitati a fornire la propria ricostruzione due accademici provenienti dai paesi a lungo antagonisti: Stèfanos Papagheorghiou, dell'Università "Panteion" di Atene, e Damla Demirözü, dell'Università di Ankara. I loro interventi, tradotti, sono adesso leggibili in Greci e Turchi, a cura di Katerina Papatheu, pubblicato dall'editore Bonanno. Un volume che adotta una prospettiva plurivoca (affrontando lo stesso tema da punti di vista diversi ma complementari), e multidisciplinare, tra storia, musica e letteratura. Raccoglie infatti anche i contributi di due musicologhe  dell'Università di Catania (Graziella Seminara e Maria Rosa De Luca), sul confronto con l'Oriente nella musica occidentale, e un saggio della curatrice, Katerina Papatheu, sulla rappresentazione letteraria del novecentesco conflitto greco-turco, e in particolare sul romanzo Terra insanguinata, del 1962. La sua autrice, Didò Sotiriu, scomparsa nel 2004, greca, nacque suddita dell'Impero ottomano, in Anatolia, nel 1909; fu testimone, adolescente, di quegli anni in cui  «si giocava a nascondino con la morte», prima di  frequentare la Sorbonne e militare nella Resistenza greca.

L'interpretazione di K. Papatheu mostra come in Terra insanguinata la letteratura sia chiamata ad assolvere una insostituibile funzione memoriale, a svolgere un ruolo complementare, necessario, nei confronti della storia. Al narrare  è infatti affidato il compito di mantenere vivo nel presente il ricordo del passato, sottraendolo all'inevitabile oblio decretato dal trascorrere del tempo e dalla perdita delle testimonianze in «imbalsamati archivi», irreparabilmente muti per le nuove generazioni, se non vivificati dalla narrazione. A quelle testimonianze Didò Sotiriou diede voce con la sua finzione narrativa, facendole rivivere con l'artificio letterario del "manoscritto ritrovato" di un contadino dell'Asia Minore. Un espediente, quello del manoscritto,  che ha consentito di realizzare una scrittura in bilico tra «invenzione e fonte documentaria, ...obiettivo distanziamento e affidabile vicinanza». Questa finzione letteraria non mira certo ad attingere l'ormai improponibile, ottocentesco «sogno della Storia», ossia una impossibile ricostruzione integrale del passato. E però consente di riordinarne le  «tracce intermittenti» per una sua rilettura, sì parziale, ma comunque attendibile. È questa l'interpretazione proposta in Greci e Turchi, con acuta analisi, ed espliciti riferimenti alle posizioni di G. Duby. E con una opportuna contestualizzazione non solo del narrato ma anche del momento della narrazione. Al suo romanzo Sotiriou aveva affidato infatti una duplice finalità: «Affinché i vecchi non dimentichino. Affinché i giovani traggano un giusto giudizio». I giovani greci per i quali ella scriveva  vivevano gli anni della guerra fredda, in un paese già sconvolto, fino al 1949, da una sanguinosa guerra civile, e in cui  l'esercito era attestato su posizioni revanscistiche di estrema destra. Si posero allora le basi del "regime dei colonnelli", della tentata annessione di Cipro, della conseguente invasione turca dell'isola (1974), con  il rischio di una guerra tra due paesi appartenenti alla Nato.

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In quel clima Terra insanguinata compiva una coraggiosa demistificazione del passato, depurandolo dall'odio alimentato dalla retorica e dalla storiografia nazionaliste, che riducevano il rapporto greci-turchi allo schema oppressi-oppressori (condiviso dal filellenismo occidentale sin dalla guerra d'indipendenza del 1821). E dimostrava, questo importante romanzo del Novecento, come ancora una volta la letteratura possa  restituirci la verità falsificata  dalla storiografia e dalla retorica asservite ad interessi di parte. "Passando a contrappelo" (W. Benjamin) la storia ufficiale e gli stereotipi nazionalisti, Terra insanguinata restituiva un'altra realtà, fatta non di contrapposizioni etniche, ma strutturali e materiali (capitalisti, mercanti, padroni da una parte e sfruttati, contadini, soldati, dall'altra). Così svelando i veri interessi e il vero volto della  guerra (una «Circe che, solo toccando gli esseri umani, li trasformava in porci»). E consegnandoci il ricordo della «reciproca assimilazione culturale» realizzata  dai due popoli in uno spazio, «l'Anatolia, che non è terra né di sé né dell'Altro, ma di un "noi" che include i due termini di paragone». Ed è questo spazio il vero "eroe" del romanzo, nella avvincente lettura proposta da Greci e Turchi: non una delle due etnie contrapposte, ma la loro comune Terra insanguinata. Affidata alla nostra memoria, con il simbolico taccuino di un contadino, da tutta la «gente perduta sulla terra», vittima della grande Storia.