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Facoltà

Diritti umani e risoluzione pacifica dei conflitti

Il Sudafrica di Nelson Mandela raccontato da una fotogiornalista catanese

 
 
27 maggio 2007
di Simona Calì Cocuzza
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Sabato 9 giugno, al Centro culture contemporanee Zo, è stato presentato il libro "Mandela" scritto dalla fotogiornalista di origine catanese, Simona Calì Cocuzza.

All'incontro con l'autrice, organizzato dall'Istituto siciliano per la Storia dell'Italia contemporanea (Issico), in collaborazione con il Dipartimento di Analisi dei processi politici, sociali e istituzionali (Dappsi) dell'Università di Catania econ il Centro Zo, sono intervenuti il giornalista e parlamentare europeo Claudio Fava, il curatore della collana "21° secolo" (Giunti Editore) e docente di Storia contemporanea all'Università di Siena Marcello Flores, lo storico Rosario Mangiameli (Università di Catania) e la docente di Sociologia delle comunicazioni di massa Graziella Priulla. Pubblichiamo di seguito l'intervento della stessa autrice.


 

Dopo la nascita del sistema internazionale di tutela dei diritti umani come conseguenza della tragedia della Shoah - la Carta delle Nazioni Unite, gli statuti dei Tribunali di Norimberga e di Tokyo, la Convenzione contro il genocidio, la Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, le quattro Convenzioni di Ginevra - il mondo ha assistito, paradossalmente, ad una impressionante serie di violazioni dei diritti appena sanciti.

La guerra al terrorismo scatenata dagli Stati Uniti dopo l'11 settembre 2001, condivisa e appoggiata dalle  potenze occidentali, col suo campionario di violazioni getta oggi un'ombra inquietante sulle relazioni internazionali, fomenta razzismi, acuisce disuguaglianze e rende sempre più ardua  la ricerca di risoluzioni pacifiche dei conflitti.

Altrettanto singolare è stata la contemporaneità di due eventi antitetici che hanno irreversibilmente segnato la storia del secolo scorso: mentre l'Assemblea generale delle Nazioni Unite adottava la Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo tesa a scongiurare il ripetersi delle atrocità che avevano da poco sconvolto il pianeta, nell'ultimo lembo d'Africa nasceva uno dei regimi più brutali del ventesimo secolo.

Era il 1948 e in Sudafrica la vita dei neri stava per cambiare drammaticamente. I boeri - una minoranza composta dai discendenti degli antichi coloni olandesi, tedeschi e francesi insediatisi nel 1652 in gran parte dell'attuale territorio sudafricano - avevano vinto a sorpresa le elezioni politiche con un programma elettorale noto come "Piattaforma Malan", dal suo ispiratore Daniele Malan, capo del National Party, sostenitore di Hitler e acerrimo nemico degli inglesi.

Apartheid (separazione) fu il termine adottato per definire il sistema che avrebbe dovuto sancire per sempre la supremazia dei bianchi. Era l'istituzione di un regime  in cui il razzismo, da tempo pratica comune, veniva eretto a principio giuridico. Con la codificazione di leggi e regolamenti basati sul principio della "separazione delle razze", il rigido schema razziale venne esteso a ogni sfera dell'attività umana. La proibizione di matrimoni misti e l'Immorality Act vietavano ogni contatto sessuale tra bianchi e africani; il Group Areas Act stabiliva il principio delle aree residenziali separate in base alla razza; il Separate Amenities Act decretava la segregazione nei mezzi di trasporto e nelle strutture pubbliche come cinema, ristoranti e impianti sportivi; il Population Registration Act classificava le persone secondo quattro categorie razziali: bianchi, coloured, asiatici e nativi.

Nonostante le numerose proteste della comunità internazionale e le decine di risoluzioni dell'Assemblea delle Nazioni Unite (la prima è del 1952) che intimavano al regime sudafricano lo smantellamento del sistema dell'apartheid, per quasi mezzo secolo alla maggioranza della popolazione - 40 milioni di neri contro 5 milioni di bianchi - vennero negati i diritti più elementari.

La sopravvivenza di un regime così disumano non sarebbe stata possibile senza la forte complicità delle maggiori potenze occidentali, che al di là delle dichiarazioni d'intenti continuarono fino agli anni '70 ad investire in Sudafrica ingenti capitali e ad importare uranio, oro, diamanti da un paese che nasconde nelle sue viscere la più grande quantità di ricchezze minerali di tutto il pianeta.

Solo dopo i lunghi anni di lotta del popolo sudafricano e dopo la drammatica crisi economica che negli anni '80 ha rischiato di far precipitare il paese in un bagno di sangue, il regime razzista fu costretto a cambiare radicalmente rotta. Nel 1989 l'elezione a capo dello Stato di un politico moderato come Frederik de Klerk mise fine al lungo incubo che aveva imprigionato per oltre quarant'anni le vite di milioni di neri sudafricani. 

Nel 1990, dopo la liberazione di Nelson Mandela, rinchiuso in  carcere per 27 anni, si avviò nel paese un lento e accidentato processo negoziale tra le rappresentanze di tutte le forze politiche. Le prime elezioni democratiche della storia del Sudafrica, il 27 aprile del 1994, videro il successo dell'African National Congress e l'elezione di  Nelson Mandela a  Presidente della Repubblica.

Uno dei suoi primi atti da Capo dello Stato fu la costituzione della Commissione per la Verità e la Riconciliazione (TRC), che aveva  lo storico  compito  di ricostruire, nel modo più completo possibile, il quadro della natura, delle cause e della diffusione delle gravi violazioni dei diritti umani. Smascherare l'apartheid e attuare una reale  riconciliazione tra le forze che avevano oppresso il suo popolo e quelle che avevano lottato per la libertà e la democrazia, divenne per Nelson Mandela l'obiettivo prioritario di governo.  

Due anni prima lo stesso African National Congress, accusato di aver esso stesso ucciso e torturato all'interno dei campi di addestramento e prigionia in Angola, Zambia, Zimbawe e Tanzania, aveva compiuto un gesto assolutamente inedito nella storia dei movimenti di liberazione, creando ben tre Commissioni d'inchiesta allo scopo di verificare la veridicità di tali accuse. La leadership dell'ANC si era assunta la responsabilità degli abusi commessi e aveva pubblicamente presentato le sue scuse. Furono i risultati di quell'indagine a convincere Mandela della necessità di trovare strumenti e meccanismi per occuparsi di tutte le violazioni del passato.

Per dare una solida base etico-morale alla democratica e multirazziale "rainbow nation", la Commissione per la Verità e Riconciliazione sudafricana decise di intraprendere la strada della "giustizia restitutiva", a cui è improntata la giurisprudenza africana tradizionale e il cui nucleo non è la punizione o il castigo, ma la riconciliazione attraverso la verità e il rifiuto di qualsiasi forma di vendetta. L'amnistia avrebbe rappresentato un atto concesso individualmente solo ai colpevoli di crimini che avessero accettato di comparire di fronte alla Commissione per raccontare tutta la verità sui fatti loro imputati.

Per oltre due anni vittime e carnefici, con le loro agghiaccianti testimonianze, esposero il complesso mondo sudafricano allo svelamento della verità sulla storia recente. L'aver posto le vittime dell'apartheid al centro del processo di risanamento del paese, l'aver dato loro la possibilità di raccontarsi, liberandoli così da un lungo e doloroso esilio interiore, furono i principali meriti del coraggioso lavoro della Commissione. Anche per chi sapeva, per chi aveva preso parte alla lotta di liberazione, per chi aveva conosciuto la durezza di quegli anni, le quotidiane rivelazioni della Commissione hanno costituito un trauma senza precedenti.

"Sapevo molto di quanto era accaduto - ha affermato il commissario Mary Burton, leader del movimento Black Sash, che dal 1955 ha rappresentato l'unica voce delle donne bianche contro l'apartheid - ma quest'enorme flusso di persone che venivano a raccontare le grandi sofferenze subite. Sì, questo é stato difficile da sopportare, proprio per le responsabilità che tutti noi abbiamo avuto nella società".