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Didattica

Creatività narrativa e didattica universitaria

Intervista a Elvira Seminara

 
 
30 settembre 2008
di Gisella Padovani
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Può l'impegno didattico trarre impulso e beneficio da esperienze professionali di altro genere?  Possono la libera creatività artistica e il rigore della ricerca scientifica compenetrarsi in un nesso osmotico? Può un docente universitario fregiarsi anche di un'identità intellettuale "altra" rispetto a quella prescritta dall'ufficialità accademica? Tali quesiti pertengono a temi intriganti e oggi molto dibattuti, sui quali verte l'intervista ad Elvira Seminara, docente di Storia e tecnica del giornalismo alla facoltà di Lettere dell'università di Catania, redattrice del quotidiano "La Sicilia", autrice di un viaggio-inchiesta tra le donne siciliane (Sensi. Donne sull'orlo dell'isola, Catania, Sanfilippo, 2005) e di un romanzo, L'indecenza (Milano, Mondadori, 2008), che si è recentemente imposto all'attenzione del pubblico e della critica. 

Quanto hanno contato, sul piano della didattica universitaria, la tua lunga pratica di scrittura giornalistica e la tua esperienza di creatività letteraria?
In origine, una confessione.  Essere giornalista e scrittrice per me vuol dire sentirsi anfibi, cioè avvertire e partecipare un'identità duplice, e non così naturale e coerente come siamo abituati a credere. Partiamo dalla narrazione, ad esempio: quella del giornalista, pur nella sua (auspicabile) cifra personale, dev'essere obiettiva,  spesso impartecipe e comunque imparziale, logica, aderente ai fatti e alla loro rappresentazione. Allo scrittore chiedi al contrario una lingua personale, uno stile soggettivo, una reinterpretazione del reale. L'arbitrarietà, che è un valore per lo scrittore, è per un giornalista un incidente professionale. Un linguaggio visionario, apprezzabile in un romanziere,  può costare a un cronista l'espulsione dall'ordine.
E poi lo sguardo sul mondo. La prospettiva. Che dev'essere misurata, equanime e verificabile per un cronista, ma può essere instabile e strana, accidentale o folle per uno scrittore. Lo scrittore magnifica l'Io, il cronista deve seppellirlo.
Insomma, secondo me, si tratta di due attitudini  da far convivere ma non coincidere. E questa differenza, cioè l'onestà intellettuale del mestiere con le sue diverse regole, è una cosa che cerco di trasmettere ai ragazzi.

Ma quanto è possibile tener separate, nello sguardo e nel mestiere, le due  prospettive ?
Il problema secondo me non è tanto la separazione dei ruoli quanto la coscienza delle differenze.  Uno scrittore ha il privilegio dell'invenzione. Ma il giornalista ha un dovere etico oltre che professionale: informare raccontando il vero. E per farlo deve documentarsi scrupolosamente, verificare le fonti, presentare al lettore le diverse e opposte voci sul fatto. Si fa troppa confusione, usando i termini come sinonimi, tra informazione e comunicazione. Dimenticando che  la comunicazione, cioè la circolazione e scambio di idee, può facilmente eludere, dolosamente o no, l'informazione.

Con quali esiti  (e quanta utilità) per i tuoi allievi hai attivato una dinamica di interconnessione fra le differenti modalità del tuo impegno intellettuale?
Ci sono valori, alla base di tutto questo, che sono fitti e intrecciati come la trama di un tappeto. L'impegno nella ricerca di senso, la concezione della vita come inchiesta, indagine. Sulla società, sul nostro tempo. E poi c'è la curiosità, che spinge il giornalista o lo scrittore a domandare, chiedersi, saperne di più. Entrambi in fondo sono dei voyeurs  legittimati, sui quali si chiude, appunto, un occhio per tolleranza professionale. Dico ai ragazzi che fare il giornalista insegna a guardare, osservare. E quest'esplorazione del dettaglio aiuta lo scrittore, lo abitua a descrivere con cura, per rifinire ogni immagine e renderla visibile agli occhi del lettore. Alla base, comune, quella passione per la lingua, il suo potere magico e primigenio di svelare, mostrare, emozionare.


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Anche per gli studenti di oggi è così forte l'amore per la lingua?
Grazie al web i ragazzi oggi amano moltissimo scrivere e scriversi, ma ciò non vuol dire esattamente amare e curare la lingua, risorsa preziosa. Siamo un popolo di comunicatori,  ci inondiamo di parole fra sms e mail, ma secondo gli ultimi dati il trenta per cento degli italiani è analfabeta funzionale. Alla prima lezione, per aiutarli a capire le loro motivazioni, di solito chiedo agli studenti di rispondere, nel segreto delle loro coscienze, a queste tre domande. Se li diverte la lettura dei giornali. Se hanno il vizio di guardarsi intorno  con quel mix speciale di rabbia e curiosità. Se gli piace scrivere più di ogni altra cosa. Solo in presenza di tre Sì, gli dico, amate il giornalismo. Non basta il piacere di scrivere, perché è sufficiente essere giovani o innamorati, per provarlo in modo bruciante..E comunque poi li metto alla prova, a scrivere notizie in aula.

Con quali accorgimenti hai tesaurizzato la specifica qualità della tua condizione di donna che vive in un certo modo la realtà del suo tempo, che pensa, studia e scrive?
Non credo di aver messo in pratica qualche accorgimento speciale. Ognuno vive il suo lavoro con tutta la sua storia, la memoria e i confini della propria biografia. E porta dentro la sua città, con tutte le sue ferite e i  sogni, perché vivere e scrivere a (e di) Catania non è come essere giornalista a  Parma. Le donne, poi, hanno quella naturale curiosità e sensibilità sociale, quell'intuito e capacità di ascolto,  quel bisogno di partecipazione e  giustizia  che le rende particolarmente adatte per questo mestiere.  Forse anche perché il giornalismo sta cambiando, giorno per giorno. E le donne sono professioniste nell'arte di mutazioni e adattamenti.

Il giornalismo che cambia. Come ne illustri, agli studenti, regole e  tecniche in  mutamento ?
Se racconti la tua esperienza, i tuoi dubbi e le attese, aggiungi alle nozioni il  valore della testimonianza. E i ragazzi lo sentono. Penso sia giusto illustrargli anche la precarietà attuale del sistema informativo classico di fronte al mondo on line, la fragilità del cartaceo dinanzi al web. E poi la crisi di identità della categoria, sospesa tra il nuovo e il vecchio, dove nuovi non sono solo gli strumenti mediatici ma la concezione stessa di notizia e la sua percezione sociale. E d'altronde in una "società liquida" come la nostra saltano anche i vecchi argini della gerarchia delle notizie, le griglie di schemi e consuetudini. Con Internet il ciclo di formazione biologica di una notizia è ormai continuo e rapidissimo, e dal produttore (del dato) al consumatore il tempo è minimo! In più hai una notizia in corso d'opera, trasparente nel suo stesso farsi, e che ti raggiunge sul desk bell'e pronta, uguale per tutti. E che dire poi dell'informazione polverizzata che ti insegue ovunque, da qualsiasi schermo o altoparlante? Cosa vuol dire fare giornalismo oggi, su queste sabbie mobili?

Rilancio la domanda. Cosa vuol dire?
Montanelli, che era un grande professionista, diceva che il giornalista dev'essere orfano, scapolo e bastardo. Io penso invece che debba vivere tra la gente, ascoltare tutti e non solo chi grida o ha il microfono, e che debba riconoscere dei padri, assumersi le sue responsabilità personali, cioè mettersi in gioco. Penso che nessun luogo come la facoltà di Lettere possa trasmettere ai ragazzi il senso etico e sociale della parola. La sua bellezza ma anche la sua responsabilità.

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