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Internazionalizzazione

"I Malavoglia" a Rabat


 
 
30 giugno 2008
di Felice Rappazzo
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12 maggio, lunedì: sono arrivato a Rabat la sera prima, ho appena avuto il tempo di collocarmi nello spazio e nel tempo di una realtà, per me, nuova.
Ho voluto con entusiasmo partecipare al progetto dei corsi internazionalizzati della Facoltà di Lingue: ora sono di fronte a una classe di circa ottanta ragazze e ragazzi. Le prime vestono in modo vario, con o senza foulard, con qualche civetteria, talvolta, anche nell'uso di questo accessorio: cosa che lascia indovinare differenti famiglie di origine, e anche differenti strati sociali: nessuno elevato, tuttavia. I ragazzi sembrano tutti di estrazione modesta.

Ho preparato un piano di lezioni piuttosto fitto e compatto: avevo pensato di ripercorrere la storia dell'Italia moderna attraverso il romanzo, da Verga e De Roberto fino al presente.
Ma i colleghi mi fanno capire prima e mi dicono chiaramente poi che altre sono le esigenze: un excursus sui problemi del romanzo sì, poi I Malavoglia e Svevo e Pirandello. Detto fatto. Riciclo appunti e scaletta, mi avvio a parlare . di Manzoni.

E tuttavia, man mano che parlo, vari interrogativi mi si presentano e mi torcono parole, concetti e perfino nozioni: perché sono in Marocco, in Africa. Rabat è una città moderna anche dentro le mura, bianca, spaziosa, aperta al mare e ai venti: ma frasi come «l'esperienza di Manzoni, prima che italiana, è un esempio di cultura letteraria romantica ed europea»; o come «il verismo italiano e la soluzione linguistica di Verga sono un momento dell'elaborazione estetica europea», che pure, all'ingrosso, pronuncio, mi risuonano inopportune, in quel contesto.

Non che i ragazzi non le capiscano: sono io a sentirle eccentriche. Dislocato come sono, geograficamente (e culturalmente) fuori dall'Europa, in un paese che - certo - con l'Europa stessa (Francia e Spagna, in primis) ha avuto rapporti strettissimi di conflitto e di integrazione, ma che ha orgogliosa popolazione araba e berbera, che confina con la Mauritania e con l'Algeria, che vede investimenti colossali di Emirati Arabi e di Arabia Saudita, invaso dal turismo sciatto e sprecone dei ricchi  del Nord, sento che le mie parole debbono essere in primo luogo "pensate", e di conseguenza pronunciate, a partire dal diverso e nuovo punto focale nel quale sono ascoltate.


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Non soltanto debbo aggiungere nozioni storiche che non posso dare per scontate (la stessa idea di Italia, ad esempio; anche se, per la verità, non posso darla per scontata neanche in patria), ma soprattutto debbo comprendere che per i giovani marocchini (che pure studiano con passione e interesse l'italiano e l'Italia) l'Europa e il mondo sono letti e interpretati a partire dalla loro storia, dalla loro geografia, dalla loro cultura.
L'astrazione "scientifica" del discorso critico, fruibile in quanto tale un po' ovunque nel nostro mondo occidentale, mi sembra perdere di senso e di spessore, mentre cresce la concretezza empirica del fatto letterario, man mano che parlo.

Difatti, a fine lezione, ho la controprova: sono arrivato, in due ore quasi, a toccare Verga e I Malavoglia, che i valenti docenti dell'Università Mohammed V di Rabat hanno letto nel corso dell'anno. Studenti e docenti erano interessati a sentirne parlare da un docente italiano, nell'ottica italiana, in lingua italiana, ovviamente. E quando giungo al congedo, dicendo: «Bene a domani; ma vedrete, I Malavoglia sono un testo difficile, e non poco», una ragazza dalla prima fila vince la timidezza per dirmi: «Perché difficile, professore? Noi l'abbiamo letto durante il semestre, e l'abbiamo capito».
Rimando all'indomani le spiegazioni, ma ecco che, dal fondo dell'aula, un'altra ragazza interferisce con un breve intervento. Hanno capito il romanzo, mi spiega a chiarimento, perché hanno letto in filigrana in quelle pagine la loro  cultura, la loro storia, i loro problemi nazionali. L'intervento e la chiosa mi rallegrano e mi turbano al tempo stesso.


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Il romanzo di Verga ha dunque prodotto nei giovani marocchini un effetto emotivo notevole, un processo di identificazione su un terreno antropologico. Non mi sento di lamentare un'attenzione ridotta ai procedimenti stilistici (tanto più che, mi accorgerò poi, la conoscenza dei processi formali è tutt'altro che ignota, segno che la lettura del testo da parte dei docenti è stata aggiornata e efficace); mi sorprende piuttosto che, a tanta distanza culturale, storica e geografica, il processo che Verga delinea nel romanzo sia colto così bene nella sua squadrata essenzialità da produrre identificazione.

Sono, mi chiarisce saggiamente l'amico e collega Mohammed Moktary, "anima" del gruppo e mentore di allievi e ospiti, «le irrequietudini pel benessere», da Verga evocate, a produrre l'interesse dei giovani: che noi ci sogniamo, essendo i nostri giovani disinteressati e irrequieti a causa del benessere, e inquieti e apatici a causa di una precarietà fantasmatica (trovandosi essi nella oggettiva condizione di «bamboccioni»: absit iniuria verbis!) ma incombente e ben reale. Quanto la sensibilità degli studenti di Rabat (giovani, a un tempo, "privilegiati" e "poveri") sia segno di una trasformazione sociale in corso è per me nebuloso, anche se, a naso, intuibile.

Conta poco riferire delle altre fasi del breve corso. Più importante è segnalare la continuità dell'interesse dei ragazzi che hanno offerto anche alcuni spettacoli, in italiano, teatralizzando il mito di Prometeo, e ancora una scena dei Malavoglia (un dialogo fra la Longa e 'Ntoni, nel segno del distanziamento e della separazione, tratto dal cap. XI), e, infine, un dialogo fra un visitatore italiano e un mercante marocchino tratto dal reportage di Edmondo De Amicis dal titolo, appunto Marocco, risalente al 1875. Anche questo è stato un momento interessante, perché i ragazzi leggevano autonomamente le posizioni di De Amicis come ispirate a un senso di superiorità culturale, quelle del mercante come una orgogliosa difesa della differenza. Gli aspetti interculturali del testo non venivano colti, ma, qui, poco importa: si trattava pur sempre di uno sforzo interpretativo, di una implicita progettualità culturale che mi hanno colpito positivamente.

Così come, va da sé, mi hanno colpito la cortesia e ospitalità di colleghi e studenti, che pur discretamente, mi hanno sempre accompagnato e guidato, anche in una... gita scolastica nel sito romano di Volubilis.

Una osservazione conclusiva: la Facoltà di Lettere da me visitata è in forte rinnovamento. Moktary, che è anche il curatore della Biblioteca, ne sta curando anche la riorganizzazione. Gli studenti hanno belle strutture, ma pochi mezzi: e tuttavia tutti, chi più chi meno, parlano in italiano, scrivono sceneggiature o poesie.

Insomma, l'economia di strumenti stimola l'utilizzo pieno di tutti quelli che si rendono disponibili, e risultati non inferiori a quelli ottenuti dai nostri ossessivi cicli di somministrazione/verifica di prodotti didattici. Cosa di cui non ho mai dubitato.

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