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Università e territorio

Piccola è bella

La prospettiva dell'architetto di piccole città

 
 
29 maggio 2008
di Bruno Messina
Messina 3J.Houel, Cisterna vicino Lentini, 1777.jpg

Il recente convegno internazionale sulla Piccola Città, organizzato dalle Facoltà di Architettura, di Lettere e filosofia, e Lingue e letterature straniere, ha consentito di sviluppare alcune riflessioni sul ruolo e la figura dell'architetto che sceglie di operare al di fuori della grande area metropolitana.

Nella straordinaria varietà del territorio siciliano paesaggi di rara bellezza e città di piccola dimensione descrivono nel loro insieme un'unica immagine di grande ampiezza, un ininterrotto palinsesto di dense stratificazioni che sembra corrispondere ad una specifica condizione sociale e culturale. «Più la città è bella, più la gente è bella» diceva Vittorini ne Le città del mondo, insistendo sull'idea di una reciprocità tra le qualità di una città e quelle dei suoi abitanti. Questo singolare equilibrio tra natura e artificio, tra storia ed esperienze del vissuto quotidiano è, forse, il tratto peculiare del paesaggio culturale siciliano che con maggiore incidenza ha colpito lo "sguardo dello straniero". Immagini e suggestioni del "viaggio in Sicilia" appartenute ai viaggiatori del passato si sono, così, sedimentate nell'immaginario collettivo costruendo una parte importante della nostra identità culturale.

Per alcuni grandi architetti i nostri luoghi hanno costituito una lezione feconda. Karl Friedrich Schinkel (1781-1841) è affascinato dal rapporto tra tipo e luogo proprio degli insediamenti della campagna siciliana, fissato nel progetto della Landhaus bei Syrakus. Jean Ho?el (1753-1813) coglie nei suoi disegni il carattere rupestre e l'idea stereotomica della costruzione del paesaggio ibleo. Erik Gunnar Asplund (1885-1940) trasfigura le suggestioni notturne del cielo stellato di Siracusa nella volta del Cinema Skandia a Stoccolma. Alvar Aalto (1898-1976) ripete ossessivamente la forma della cavea e nella sua ricerca il riferimento all'antichità classica è arricchito dal costante rimando alla rovina. In tutti questi progetti è evidente un'idea di tempo ciclico che trasforma continuamente rovine in architetture, un'idea aderente alla specificità di uno stato dei luoghi in cui la continuità tra passato e presente è evidenza quotidiana. È possibile, dunque, a partire dalla lezione di questi "maestri", individuare una dimensione di lavoro in cui innovazione e tradizione producano, attraverso la sintesi del progetto, un cortocircuito creativo sul piano della nuova architettura.

Eppure il dibattito attuale sembra non registrare questa coincidenza di prospettive tra la pratica della trasformazione, attraverso il progetto di architettura, e i processi di modificazione della città e del territorio tesi a definire nuove identità contemporanee. Indugiando sulle ragioni della storia e del paesaggio diventa, infatti, più difficile riconoscere che ogni trasformazione è inevitabilmente espressione di un tempo della città e che, dal punto di vista del progetto, è il risultato di un'esegesi tesa a comprendere  «il secolare processo di manomissione degli edifici e degli spazi urbani» (B. Secchi, Prima lezione di urbanistica, Bari-Roma 2000, p. 150). Nella storia più recente non sono pochi i casi in cui le posizioni intransigenti riguardo ad ogni possibile intervento sull'antico, da una parte, e gli esiti di condiscendenti aperture alla contemporaneità, dall'altra, hanno finito col produrre quella paralisi - istituzionale, culturale e di cantiere -  tipicamente "italiana" che deriva dall'opposizione tra vani proibizionismi e arbitrarie liceità. Sono emblematiche a questo proposito le vicende della sistemazione dell'area dell'Ara Pacis a Roma e quelle della costruzione dell'auditorium di Ravello. In entrambi i casi si è ampiamente discusso sugli architetti autori dei progetti e non sugli strumenti più appropriati alle specificità del tema, eludendo ancora una volta il vero nodo problematico: "come fare?" invece di "si può fare?". 


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Riportare il confronto sul terreno degli strumenti specifici, invece, significa darsi l'opportunità di superare la polarizzazione del dibattito prendendo le distanze sia da un'idea a-storica della città e del territorio sia da un'idea a-moderna del paesaggio. Non si tratta, infatti, né di riaffermare una presunta identità locale rivendicando specificità e autonomia dei percorsi di ricerca, né di adeguarsi alla condizione di autoreferenzialità dello star-system architettonico internazionale. È forse più utile tornare a riconsiderare la relazione tra uomo e ambiente, come proponeva Norberg-Schulz: «ci chiediamo di cosa abbiamo bisogno per rendere l'ambiente una parte soddisfacente dell'esistenza umana.

La risposta che propone un mondo in movimento non è affatto realistica. Essa confonde realtà fisica con quella psichica e sostituisce alla vera identificazione il concetto caotico di stimoli [.] l'Odissea è ancora una storia attuale» (C. Norberg-Schulz, Esistenza, spazio e architettura, Roma 1975, p. 63).
La questione attiene, dunque, alle forme del tempo, al suo darsi in forma ciclica o in forma seriale, ed è una questione rilevante nell'immaginare il progetto di trasformazione come strumento ermeneutico di una realtà in continuo divenire. Il progetto, secondo questa idea, è uno strumento che opera, potremmo dire, qui - in una realtà densa e stratificata - ed ora - nel tempo presente. Uno strumento che deve sapersi piegare alla possibilità di immaginare l'idea di tempo tra velocità e lentezza, di sperimentare forme possibili di continuità e discontinuità con la storia, di definire le "figure" contemporanee del paesaggio, di interpretare gli sconvolgenti mutamenti dei sistemi insediativi nel territorio che derivano dai nuovi modi di abitare.

Dare soluzioni alla perdita di forma della città e del territorio e individuarle con gli strumenti del progetto di architettura può essere, dunque, per l'architetto un'ipotesi di lavoro concreta e aderente alla contemporaneità. Ho l'impressione, invece, che oggi ci sia una diffusa tendenza a far coincidere il progetto di trasformazione con la lettura dei fenomeni urbani e del territorio, a sostituire cioè gli strumenti dell'architetto con quelli del geografo, strumenti necessari ma non sufficienti per il progetto proprio perché sprovvisti di quella capacità di pro-gettare, cioè di descrivere prefigurando e di proporre conoscendo.


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Italo Calvino descrive efficacemente il carattere ermeneutico del progetto: «Il lavoro dello scrittore deve tener conto di tempi diversi: il tempo di Mercurio ossia la partecipazione del mondo intorno a noi e il tempo di Vulcano, la focalità, ossia la concentrazione costruttiva, un messaggio d'immediatezza ottenuto a forza d'aggiustamenti pazienti e meticolosi; un'intuizione istantanea che appena formulata assume la definitività di ciò che non poteva essere altrimenti; ma anche il tempo che scorre senza altro intento che lasciare che i sentimenti e i pensieri si sedimentino, maturino, si distacchino da ogni impazienza e da ogni contingenza effimera» (I. Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Milano 1988. p. 53).

Questa idea, mi pare ben aderisca anche al lavoro dell'architetto, lento e paziente, sulla città e sul territorio. Potremmo leggervi un'ulteriore metafora: nella concentrazione di Vulcano una condizione di lavoro in una realtà isolata, nell'adesione al mondo di Mercurio la necessità di partecipare ai mutamenti del tempo presente. È una condizione, questa, necessaria nella dimensione della piccola città che costituisce non solo il tessuto connettivo del territorio italiano -  più specificamente del "nostro" paesaggio siciliano -  ma anche, e principalmente, il nostro ambiente di lavoro: un luogo di sperimentazione diffusa e continua.

Mi viene in mente la figura di un "architetto condotto" che abbia la concreta possibilità di incidere sui processi di trasformazione su piccola scala e di contare, poi, sull'effetto moltiplicatore della rete delle piccole città. Il patrimonio di qualità diffusa ereditato dal nostro paesaggio di città sul quale è costruita la specifica, e universalmente riconosciuta, identità dei nostri luoghi diventerebbe, quindi, una risorsa attiva con capacità di risonanza. La condizione di isolamento rispetto ai circuiti internazionali del sapere architettonico, rovesciato il punto di vista, si presenterebbe come una nuova opportunità per innescare l'inversione di tendenza rispetto all'omologazione cui la città e il territorio oggi sono inevitabilmente sottoposti. Ci sarebbe una nuova, vicina, prospettiva di lavoro, quella dell'architetto di piccole città: qui ed ora.

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