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Facoltà

Un percorso tra prigioni letterarie e scritture imprigionate

Carceri vere e d'invenzione, a Ragusa un convegno internazionale di studi

 
 
30 dicembre 2007
di Giuseppe Sorbello
giuseppesorbello@gmail.com
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Scritture nate dall'esperienza del carcere, che portano con sé  quella incancellabile condanna all'isolamento che le rende, a volte, simili a monologhi, o la prigione come metafora esplicativa, "trasparente", di una precaria ma universale condizione umana, fino al suo costituirsi come tema letterario che intensifica i momenti introspettivi del personaggio o che innesca l'azione narrativa.

Sono questi alcuni dei motivi affrontati dal convegno internazionale di studi su Carceri vere e d'invenzione. Dal tardo Cinquecento al Novecento, svoltosi dal 14 al 17 novembre a Ragusa, presso la facoltà di Lingue e letterature straniere, e a Comiso, accolto, nell'ultima sessione, dalla Fondazione Bufalino. Quattro giornate intense di studio, realizzate anche grazie all'impegno organizzativo del prof. Giuseppe Traina (docente di Letteratura italiana). Aperto dal prof. Nunzio Zago (docente di Letteratura italiana e direttore scientifico della Fondazione Bufalino), l'incontro si è articolato in una fitta serie di interventi da parte di autorevoli studiosi e giovani ricercatori di diverse università italiane e straniere, attenti ai molteplici rapporti che la prigione (come esperienza reale o immaginaria, metafora o tema) intrattiene con la letteratura moderna.

Il titolo del convegno, allo stesso tempo accattivante e problematico, ha infatti ampliato il raggio dell'indagine dalle scritture legate all'esperienza diretta del carcere, o addirittura scaturite al suo interno, alle molteplici forme che la prigione può assumere come dimensione intellettuale o topos letterario: tema vitale e ben attestato nella letteratura moderna, che esibisce la sua complessità di fondo, dovuta alle poliedriche significazioni di cui esso si fa carico e alla sua variabile  riconfigurazione storica all'interno delle diverse epoche.


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Lo scopo del convegno non era quello di proporre classificazioni tipologiche o uno studio sistematico dell'argomento: è comunque possibile, in questa sede, adottare uno sguardo retrospettivo che tenti di rintracciare alcune costanti o linee guida che sono naturalmente emerse. Molti dei testi letterari presi in esame, anche nella loro diversità di forme e di genere, esprimono la volontà di riappropriazione di un io "deprivato", il riaffiorare di una tensione etica e testimoniale non intaccata dalla condizione di isolamento in cui avviene la scrittura. L'esperienza del carcere sembra infatti animare una forte istanza biografica, che si esprime nelle forme di una ridondanza comunicativa con cui si cerca di superare, attraverso una intensificazione della qualità memoriale della scrittura, quel "cono d'ombra" (come è stato definito in un intervento sulle Lettere dal carcere di Antonio Gramsci) che è la cecità dello scrittore sul presente, tempo da cui è stato forzatamente sottratto. La cecità è insomma metafora di una "reclusione comunicativa", ma può anche essere condizione reale, come quella sofferta in prigione da Carlo Levi, autore, con il Quaderno a cancelli, di quello che è stato definito il secondo Notturno della nostra letteratura. Di sostanza biografica sono ugualmente intrisi il memoriale su L'Università di Rebibbia di Goliarda Sapienza, come certi componimenti di Dino Campana e Giovanni Pascoli, che quell'esperienza hanno riconfigurato nella dolente espressione lirica del loro io poetico.

La forte compromissione autobiografica di una scrittura condizionata dall'esperienza del carcere, o dal suo fantasma, può essere infatti modellizzata attraverso l'adozione di un filtro letterario, come tentativo estremo di ristrutturazione dell'io dell'autore nella dimensione "altra" della letteratura. La scrittura diventa allora una strategia di liberazione. Tale procedimento è documentato, per esempio, dalle autoproiezioni letterarie create da Torquato Tasso durante la prigionia a Sant'Anna, o dall'alta frequenza di modalità autoironiche, grottesche e deformanti, prevalenti tra Cinquecento e Seicento, con cui la precaria condizione della prigione, reale o solo immaginata, veniva elusa da una liberatoria ilarità catartica.

La scrittura, in questo contesto, assume dunque un valore antagonistico nei confronti di una realtà asfittica: come il borgo di Recanati, da cui Leopardi ha più volte tentato di evadere, biograficamente vissuto come "soggiorno orrendo" e "disumano". È qui tuttavia, in questo luogo pervaso da una "noia" con cui la scrittura continuamente si confronta, che Leopardi ha realizzato una parte della sua produzione poetica più significativa. Una lotta che si rinnova fino al Novecento, quando la dialettica tra prigione e scrittura diventa essenza di una parola poetica che per avverarsi deve lottare contro i confini angusti della pagina bianca, l'"esatta prigione" di cui parla Bartolo Cattafi.


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Ancor più difficile da tratteggiare è una linea di sviluppo storico della prigione come tema letterario, essendo innumerevoli le sue potenzialità di senso: esso è puro meccanismo di azione narrativa o, dopo un ottocento romantico e decadente che con il mito del poeta solitario e recluso si è identificato, puòassumere, nello specifico contesto italiano, una valenza normativa (come nel Cuore di De Amicis, con Derossi che impara a scrivere in prigione) ma anche etica e autoritaria, nel recente Stato unitario che imbriglia le forze "eversive" dell'ordine sociale. La morte del grillo parlante in Pinocchio, il libro del ribelle e "politicamente scorretto" burattino di Collodi, riesce ben a esprimere, indirettamente e sotto forma di apologo, la dimensione antilibertaria dell'Italia del tempo. Nel Novecento, il tema assumerà una connotazione esistenziale: basti pensare ai personaggi in trappola di Luigi Pirandello, indotti, durante la rappresentazione teatrale, a "confessare" il proprio "delitto" e ad autoinfliggersi una "punizione".

Oppure, si pensi ad alcuni luoghi letterari di Italo Calvino e Gesualdo Bufalino, che esprimono il destino ultimo della condizione umana attraverso la significativa ripresa dell'invenzione ariostesca del castello dei destini incrociati. Se la prigionia rappresenta la naturale condizione dell'uomo moderno, è tuttavia la consapevolezza di questo stato che può aprirci nuovi spazi di conoscenza del mondo. Tommaso e il fotografo cieco, il racconto di Bufalino, esprime una scelta di claustrofilia, una condizione di separatezza da cui guardare il mondo. È uno sguardo testimoniale, etico e critico sul mondo, che è possibile nutrire solo con la curiosità di un individuo "diminuito" nella relazione con l'altro. Si apre, elaborando questa nuova sintassi dello sguardo, una possibilità di libertà imprevista.

Sono, questi, solo alcuni degli snodi di un percorso critico che ha anche incluso esempi più famosi e immediatamente citabili, dalle Mie prigioni di Pellico alla scritture degli esuli (è il caso del siciliano Giovanni Gambini, esule giacobino), da Casanova a Vittorio Alfieri; percorso articolato e con molteplici diramazioni, a testimoniare la vitalità e persistenza di un tema letterario ricco di implicazioni civili, etiche, ed esistenziali.

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