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Facoltà

La storia, la formazione storica e "l'educazione al patrimonio"

Presentata a Scienze della formazione l'esperienza del Distretto culturale sud-est (Val di Noto) come modello per la salvaguardia dei beni culturali

 
 
30 dicembre 2007
di Carmelina Urso
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Nell?ambito degli incontri culturali promossi dalla Facoltà di Scienze della Formazione sul tema ?La comunità educante. L?università per una scommessa sociale?, il prof. Giovanni Vitolo, ordinario di Storia medievale nell?Università ?Federico II? di Napoli, ha tenuto il 26 novembre 2007 un seminario dal titolo ?L?educazione al patrimonio culturale?. Il relatore ha indagato il rapporto fra la conoscenza storica e la tutela del patrimonio per segnalare i possibili interventi dello storico nei progetti di salvaguardia dei beni culturali. Particolare interesse hanno suscitato i richiami alle esperienze maturate in varie regioni italiane e specialmente nel ?Distretto culturale sud-est? dell?area barocca del Val di Noto. L?argomento è stato introdotto da alcune considerazioni sul carattere e sui vantaggi del sapere storico.

Il dibattito sull?utilitas della storia è pesantemente condizionato dal presupposto che la storia del passato debba servire non solo a meglio intendere il presente, ma anche a fornire informazioni di utilità pratica immediata. Le riflessioni sull?affascinante tesi di Benedetto Croce a proposito della ?contemporaneità? di ogni storia e sulla necessità che gli studi storici siano in grado di cogliere la continuità dialettica fra presente e passato, nonché l?emanazione di diversi decreti ministeriali, hanno contribuito a ridurre la disciplina a storia del presente e a privilegiare lo studio della storia contemporanea a danno della storia di un passato più o meno remoto le cui istituzioni appaiono non utilizzabili dalla società attuale. A molti, addirittura, è parso necessario chiedere agli storici di rivedere le loro teorie, specie per ciò che attiene ad alcune questioni particolarmente discusse. Manca, in realtà, anche in ambienti culturalmente avanzati, la consapevolezza che, come scrive Salvatore Tramontana, «la storia è [?] ?revisionista?, cioè impegnata [?] a meditare di continuo su quel che è accaduto in tempi remoti e meno remoti». Lo storico, sostiene inoltre Marco Tangheroni, deve installarsi nel passato per comprendere gli accadimenti del passato, agevolato dal fatto che, in forza della distanza temporale, può esaminarli in maniera distaccata e considerarli nella loro successione coerente. Allo storico preme approfondire criticamente l?avvenimento, per scoprirne le ragioni più intrinseche. Solo così la storia potrà divenire non tanto magistra vitae, quanto magistra hominis.


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Ogni sapere critico agevola la capacità di orientarsi, di leggere gli eventi; tanto più lo potrà fare il sapere storico, che per sua stessa essenza è formativo: basti ricordare che permette una più approfondita conoscenza degli uomini e delle organizzazioni sociali e soprattutto che, pur non offrendo delle risposte ai problemi contemporanei, prepara ad affrontarli, consente una lettura non semplificata ma responsabile del presente.

È possibile allora pensare ad un ?consumo? di massa della storia? È corretto discutere di un uso pubblico della storia? La questione, ampiamente analizzata, investe la convinzione che la storia sia legittimamente utilizzabile, fuori dal contesto degli studi specialistici, nel confronto politico. Certo oggi è giocoforza usare il dato storico nei dibattiti sulle identità nazionali ed etniche, sull?idea di stato e di nazione; ma incombe il pericolo che, come osserva Nicola Gallerano, non si interroghi su tali temi la storia per individuare la corretta chiave d?interpretazione degli eventi attuali, bensì per stabilire fuorvianti analogie. Insomma, si corre il rischio di trascurare la complessità della disciplina, di svilire la ?libertà della memoria? ? rivendicata con orgoglio da Mario Del Treppo ? e di asservirla ad interessi politici di parte.

Lo storico, tuttavia, deve possedere, per mestiere, capacità progettuali che rendano auspicabile un suo coinvolgimento nelle attività volte a valorizzare il patrimonio culturale. La conoscenza storica del territorio e dello stratificarsi in esso delle dominazioni, l?analisi dei processi d?appropriazione da parte delle élites cittadine potranno servire a precisare i caratteri dello spazio urbano; lo studio delle impronte delle vicende religiose e cultuali potrà contribuire ad impedire scempi e alterazioni negli interventi di recupero urbanistico e monumentale. A maggior ragione risulterà importante l?apporto di chi ha una formazione storica nell?identificazione delle risorse culturali, nell?accezione più ampia del termine, che consentono di delineare il perimetro dei distretti culturali di cui oggi tanto si discute.


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Un distretto culturale è volto a favorire lo sfruttamento delle potenzialità del territorio per comunicarne all?esterno un?immagine spendibile in termini di valorizzazione culturale e anche in termini economici. In tutte le regioni italiane si sono moltiplicate le iniziative: molte delle proposte avanzate si sono, tuttavia, dimostrate ?deboli? e paiono destinate al fallimento, perché non è sufficiente dividere, come pure è stato proposto, tutto il Lazio, ad esempio, in undici distretti o tutta la Sicilia in trenta e più ?sistemi culturali?. Il distretto, per definizione, deve possedere una sua precisa identità a livello di emergenze architettoniche, oppure di tradizioni religiose, oppure ancora di beni paesaggistici, di sistemi museali ecc.; deve poi diventare oggetto di specifiche politiche di recupero e di valorizzazione del patrimonio. Ma non basta: è indispensabile che tale patrimonio sia accessibile, sia fruibile, specialmente in senso cognitivo. Emerge, in quest?ottica, il ruolo fondamentale della storia, nonché della formazione impartita dall?università, alla quale spetta il compito di preparare formatori in grado di impiegare a vantaggio della società anche la valenza della loro cultura storica. La consapevolezza di questi problemi da parte delle istituzioni potrebbe aprire nuovi spazi d?intervento in particolare ai laureati nella facoltà di Scienze della formazione, per le competenze maturate nel corso dei loro studi.

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