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Libri e dintorni

I 'salvatori della patria (lingua)'. E un eterodosso.


 
 
21 aprile 2008
di Salvatore Claudio Sgroi
scsz@libero.it
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L'italiano, come si sa, conta una ricca tradizione di manuali puristici e neopuristici, di autori cioè preoccupati dello stato di 'salute' della lingua italiana, e impegnati a indicare ricette, a dare consigli o fornire prescrizioni agli italiani insicuri o in difficoltà (cfr. G. L. Messina, A. Gabrielli, V. Ceppellini, R. Ferruzzi, F. Fochi, L. Satta, C. Marchi, M. Magni, S. Carollo, ecc.).
Tali autori condividono tutti la convinzione che sia possibile modificare il comportamento linguistico dei parlanti con prescrizioni o consigli (le "regole regolanti"). E tutti mostrano una grande certezza nel sapere cosa sia l'"errore", solitamente motivato con criteri eterogenei.

Noi invece siamo vygoskianamente convinti che sia controproducente insegnare la lingua a 'colpi di prescrizioni'. Circa ottant'anni fa il grande psicologo russo scriveva: "il peggiore metodo pedagogico è l'introduzione intensificata e persistente, nella coscienza dell'educando, di quegli atti che non deve compiere. Il precetto 'non fare una certa cosa' è già un impulso al compimento di questa azione per il fatto di portare alla coscienza il pensiero di un atto simile e, di conseguenza, la tendenza alla sua realizzazione" (Psicologia pedagogica. Manuale di psicologia applicata all'insegnamento e all'educazione, ed. Erickson 2006, p. 205).

In altre parole, la buona intenzione che accomuna i manuali (neo)puristici è destinata a fallire il suo obiettivo. Ovvero per parlare e scrivere "correttamente" la lingua italiana la via regia rimane, come sosteneva peraltro la vecchia (buona) scuola, la lettura (e l'ascolto) dei 'buoni' autori (e parlanti). Ovvero leggere, leggere, leggere libri e giornali nazionali e locali, lasciandosi guidare dalle proprie preferenze culturali (e politiche). La lingua la si impara, come la macchina, solo con la pratica.
I libri neo-puristi a nostro giudizio sono votati all'insuccesso quanto al loro fine di insegnare la 'lingua corretta' sia perché non è indicando gli errori che si incide (vedi la lezione vygoskiana, sopra ricordata), sia perché le forme ritenute "errate" sono per lo più esempi di italiano non-popolare e quindi potenzialmente corretto.
I testi dei neo-puristi il più delle volte indicano preferenze del tutto soggettive. La loro utilità è ancora più limitata e dubbia sul versante scientifico dell'analisi delle forme discusse, non solo di tipo molto tradizionale ma spesso scientificamente insostenibile. Quindi testi potenzialmente anti-educativi. Ma nei testi migliori va comunque apprezzata la quantità, la qualità e la novità dei fatti linguistici selezionati, su cui il neopurista si intrattiene con disquisizioni più o meno brillanti.

Tra gli ultimi testi neopuristici giunti sul mercato librario c'è L'italiano. Lezioni semiserie, del giornalista Beppe Severgnini (Milano, Rizzoli).
Il testo di S. riguarda in prevalenza usi non-popolari (plastismi, tormentoni ecc.), quindi potenzialmente corretti, sui cui egli esprime le sue soggettive preferenze, in uno stile certamente leggero, e quindi accattivante per il lettore.
In parte condivisibili sono così i "Sedici semplici Suggerimenti". Soprattutto i primi sei relativi al passaggio dal pensiero alle parole ("Avere qualcosa da dire, Dirlo, Dirlo brevemente, Non ridirlo; se mai, rileggerlo, Scriverlo chiaro, Scriverlo in modo interessante"). E poi quelli relativi alla forma ("Scriverlo [ortograficamente] esatto) e alla conclusione ("L'ultimo che esce, chiuda il periodo").

Moderatamente purista è l'atteggiamento di S. ( "mi oppongo a processi e condanne" p. 10).  per quanto riguarda, per es. l'uso delle parole straniere. Da un lato S. raccomanda: "Quando scriviamo in italiano, cerchiamo di usare parole italiane" (p. 142). E ne rifiuta una quarantina, tra cui news, background, fitness, stage, meeting, target, trend, brainstorming. Ma dall'altro ne accoglie e ne usa altre (email, piercing, dee-jay, sexy, restyling, drive, ecc.) con criteri inevitabilmente soggettivi, variamente condivisibili, o ne usa qualcuna come mission (p. 12) oggetto poi di ironia (pp. 32-33).

S. raramente fornisce spiegazioni, e quando lo fa o è scontato e banalissimo se non approssimativo o errato. Per es. il cap. sulla Punteggiatura, al di là dello stile frizzante, è contenutisticamente quanto mai prevedibile e ovvio. Eppure avrebbe potuto essere l'occasione per analizzare e commentare usi moderni della punteggiatura, da cui non rifugge lo stesso S. Per es. l'uso della virgola dopo un "soggetto pesante". Soprattutto considerando che l'A. aveva prima sentenziato che la virgola "non può (...) separare il soggetto dal predicato" (p. 77). Un solo es.: "tutto quello che non è indispensabile, è dannoso" (p. 110). Anche la presenza del punto fermo enfatico, in più occasioni, poteva essere oggetto di analisi. Una sfilza di punti fermi con periodi costituiti formalmente da una secondaria, privi di frase principale appare per es. alle pagg. 53-54: "Il tu si può usare quando l'interlocutore è molto più giovane (...). Quando può essere ricambiato. Quando viene esplicitamente proposto. Quando è un modo di manifestare simpatia. Quando esiste un rapporto dio colleganza". Virgola e punto fermo marcati compaiono spesso in un solo capoverso: "tutto quello che non è indispensabile, è dannoso. Non irrilevante, o inutile. Proprio dannoso, nocivo, controproducente" (p. 110).

Il più criticabile di tutti è probabilmente il cap. sugli "scongiuntivati". "Psico-sociologismo salottiero" (se non "da strapazzo") si potrebbe definire la spiegazione di S. secondo cui "La crisi del congiuntivo non deriva dalla pigrizia, ma dall'eccesso di certezze" (p. 149). Ovvero S. "Cred[e] si tratti della conseguenza logica di un fenomeno illogico"; "Sempre meno italiani, quando parlano esprimono un dubbio; quasi tutti hanno opinioni categoriche su ogni argomento" (ibid.).
L'A. ribadisce più volte questa sua convinzione: "la crisi del congiuntivo - ripeto - ha un'origine chiara: pochi oggi pensano, credono e ritengono; tutti sanno e affermano. L'assenza di dubbio è una caratteristica della nuova società italiana" (p. 150). "Chi esprime cautela (e usa il congiuntivo) rischia di passare per insicuro". L'A. si rifà tacitamente alla grammatica di Battaglia-Pernicone, risalente a oltre mezzo secolo fa, a cui dichiara il suo giovanile attaccamento (p. 182). Ma forse avrebbe fatto meglio a 'compulsare' qualche altro testo decisamente più lungimirante su questo delicato problema.

Il bello è che lo stesso S. cita qualche pagina dopo - ma senza quasi rendersene conto -- la spiegazione (scientifica) del presidente della Crusca, Francesco Sabatini, il quale riporta tale "uso parlato" alla "semplificazione morfosintattica", cioè alla scarsa distanza morfologica tra le desinenze verbali dell'indicativo e del congiuntivo in parte identiche.
Se si accetta l'ipotesi della semplificazione dell'italiano, peraltro né recente, ma ben documentata in tutta la storia linguistica, e non solo in italiano ma in tutte le lingue indoeuropee, come un secolo fa illustrò l'ahimè dimenticato Antoine Meillet, non sembra molto logico sostenere che la riduzione dell'uso del congiuntivo abbia determinato una sua pertinentizzazione rispetto all'indicativo: l'uno (presunto) modo della incertezza, l'altro della certezza.

Il ridimensionamento del congiuntivo in italiano non ha niente a che vedere con la presunta "iper-certezza" degli italiani ipotizzata da S. Il quale fa salti mortali, incredibili, con analisi semantiche fantasmatiche, per giustificare l'uso dell'indicativo: "Qualcuno penserà: allora l'affermazione Penso che Luca è un somaro è scorretta! No, è corretta. In questo caso, io penso equivale a io so [???] (cui segue, ovviamente, l'indicativo). Penso che Luca sia un somaro lascia aperta la possibilità che Luca non lo sia. Penso che Luca è un somaro smette di essere un'ipotesi [in realtà, continua ad essere un'ipotesi, come la precedente frase col cong.], e diventa una constatazione [indica, invero, sempre il punto di vista soggettivo di chi parla]: Luca ha dato prova di tutta la sua somaraggine, e non è più lecito dubitarne [non è invero cambiato nulla quanto al punto di vista soggettivo del giudizio del parlante]" (p. 150).

In realtà, le due frasi non presentano nessuna differenza semantica, la differenza essendo solo di registro: più 'elegante' (o formale) il costrutto col cong., "medio" (o informale) invece quello con l'indicativo, come peraltro già lasciava trasparire la formulazione di F. Sabatini.
Quanto all'errore, è possibile individuare, dalla giustificazione a volte indicata per giudicare "errata" una forma, criteri disparati non sempre condivisibili. S. invoca per es. tre diverse motivazioni per giustificare il suo giudizio negativo a proposito dell'enunciato "Assolutamente sì? Assolutamente no!" (p. 28). "Assolutamente sì - dichiara S. -- è assolutamente insopportabile".

L'espressione "Rivela infatti tre debolezze".
(i) Innanzitutto, si tratta di un 'plastismo': "lo dicono tutti - nota masochisticamente l'A. - lo dico anch'io". E così pure i verbi denominali a cominciare da interfacciare, attenzionare o messaggiare (p. 23). La diffusione di un certo costrutto -- si può controbbattere -- è indizio di standardizzazione e vitalità della lingua. Nessuno è peraltro tenuto ad usare una certa forma.
(ii) Poi, si tratta di un calco sull'inglese: "La seconda è la piaggeria davanti all'inglese; assolutamente sì è infatti figlio di absolutely". Per altre anglofobie news, background,fitness, stage, trend, ecc. cfr. le pp. 142-46 e 35-36. Anche in questo caso, il contatto linguistico - non va dimenticato -- è una forma di arricchimento idiomatico, e comunque nessun parlante è obbligato a far ricorso ai prestiti.
(iii) Inoltre, è un costrutto ridondante: "la terza debolezza è la più inquietante: diciamo assolutamente sì perché siamo convinti che non basti" (pp. 28-29). La 'ridondanza' in sé non è un 'peccato' ma è una caratteristica senza la quale le lingue non potrebbero funzionare. Senza dire dell'enfasi, che ogni parlante può voler dare alle proprie parole.

In realtà, come abbiamo più volte sostenuto, i veri errori sono o quelli comunicativi, oppure quelli popolari, tipici cioè dei gruppi sociali culturalmente e socialmente subalterni. Gli usi degli altri gruppi di parlanti, mediamente colti, sono potenzialmente corretti, ovvero possono essere al più ritenuti "improprietà", "ineleganze" (se non compromettono la comprensione reciproca) relativamente ai registri parlati/scritti, regionali/pan-italiani, tecnici/non-tecnici, formali/non formali, ecc.
Il lettore non mancherà comunque di apprezzare certa creatività lessicale dell'A., passibile di analisi e riflessione linguistica (o di ripulse neo-puristiche). Vari composti: puntingordo, puntesente, microdelizie, duepuntista, kopinkollators, masotest e sadoquiz, ecc. E vari derivati: il cenerentolo, formattatori, inqualchemodisti, aggettivista, parentesista, puntinista, maiuscolite, minuscolite, pubblicite, parentesismo, ecc.

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