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Dossier/ Il ruolo dell'Università per lo sviluppo di una cultura ambientale

L'ambiente raccontato dai mass media


 
 
28 gennaio 2009
di Graziella Priulla
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Molti rischi contemporanei non sono - o sono pochissimo - autoevidenti. Molti si sottraggono ai sensi degli esseri umani. I rischi più gravi non si legano a specifiche situazioni caratterizzate e circoscrivibili, ma a temi di portata globale: il pianeta in affanno, gli stili di vita malsani ma "irrinunciabili", il caos climatico, i processi macroeconomici. Fatti di sistema, che solo in poca parte paiono dipendere dal nostro controllo e non sempre si collegano a singoli episodi, a personaggi identificabili.

La loro stessa esistenza, e le loro cause e conseguenze, oltre che le relative responsabilità e i rimedi possibili, sono mediate dal sapere: luoghi della ricerca, esperimenti, strumenti di misurazione, fonti esperte. Anche per questo il ruolo dell'università è determinante.

Importantissimo, perché si diffonda una sensibilità maggiore in tutta la popolazione, è poi il ruolo delle fonti divulgative. Nonostante l'obbligo - spesso evaso - delle istituzioni di garantire l'educazione ambientale, nonostante la meritoria attività quotidiana di tante associazioni, solo una parte dei rischi che riguardano l'ambiente riesce a perforare la soglia della copertura mediale.

I rischi possono essere ridotti o ingranditi, drammatizzati o minimizzati, a seconda della gerarchizzazione che viene compiuta da chi si incarica di farli conoscere. Essi sono al tempo stesso reali e socialmente costruiti: gli autori delle costruzioni (non delle loro dinamiche, ma del modo in cui le conosciamo, le interpretiamo, e dunque reagiamo ad esse) sono le agenzie sociali che impegnano risorse cognitive e discorsi per "dare senso" alla realtà. I mass media sono la più potente, la più pervasiva, la più articolata delle sedi in cui viene effettuata questa costruzione di senso.

Che nell'età contemporanea "il rischio" non sia più minaccia episodica, ma stato permanente, è cosa nota. Che questa percezione, crescente nel corpo individuale e nel corpo sociale, si accompagni a una crescente domanda di protezione, lo si registra da mille segnali. Che i media - nella loro ricerca ormai strutturale dell'elemento patemico - registrino questa sensazione generalizzata e la amplifichino, contribuendo a varie distorsioni cognitive, si sa. La loro carica ansiogena si applica però in modo sproporzionato alla natura dei fatti.

Se la parola sicurezza compare così spesso sui mezzi d'informazione, tanto da far parlare i sociologi di "ossessione securitaria", questo non significa che sia collegata ai rischi che maggiormente corriamo. L'occultamento o la sottovalutazione potrebbero provocare addirittura il risultato di presentarci indifesi di fronte ai fattori di danno meno evidenziati, proprio mentre ci affanniamo a difenderci da quelli più pubblicizzati. Nella distanza tra ansie diffuse e rischi reali si annida la possibilità di scelte fatali.

Il "definitore primario", cioè quello in nome del quale si produce la definizione delle situazioni, è in realtà molto più l'interesse della classe politica e delle lobbies, che quello collettivo (come invece vorrebbero sia l'etica professionale dei giornalisti sia la logica del mercato delle notizie).

Gli ambientalisti e gli scienziati parlano della crisi ecologica, dei rischi legati ai cambiamenti climatici, alle emissioni nocive, all'inquinamento dell'acqua, dell'aria e del suolo, alla perdita della biodiversità, al degrado del territorio, alla gestione dissennata delle risorse idriche. E però,  in un paese come il nostro, maglia nera per l'attenzione politica all'ambiente, viene reso difficile al senso comune accedere all'ipotesi che essi siano problemi "politici". Tra i mille dibattiti televisivi, ce n'è mai stato uno, ad esempio, sul fatto che nell'ultimo decennio i disastri naturali sono aumentati del 68%? Che il numero delle vittime è cresciuto di tre volte?

Su temi importanti come la salute (e dunque la vita e la morte), il futuro della Terra, la stessa condizione umana, assistiamo a comportamenti discontinui, a fasi oscillanti, sussultorie: all'enfatizzazione di episodi eclatanti segue di norma il disinteresse. I rischi si inseguono, si incalzano, poi scompaiono. Due allora sono le reazioni possibili: o si tende a uno stato di ansia perenne, ad una sorta di fibrillazione esagitata, che procede a sussulti (si pensi all'inseguirsi delle "emergenze" alimentari, dalla Bse all'aviaria, al recente maiale alla diossina); o si cerca di metabolizzare le questioni rimuovendole (le polveri sottili) o assimilandole al "destino" (i crolli) e alla "natura" (le alluvioni), senza che si sia nel frattempo studiata una soluzione e senza che siano mutati i termini sostanziali dei problemi.

È forse naturale che un giornale quotidiano misuri le proprie scelte sul metro delle ore, un telegiornale sul metro dei minuti, ma la brutale ottusità del presente pare aver contagiato tutta la nostra società, che sta diventando talmente miope come mai l'umanità era stata nella storia. È paradossale: oggi abbiamo strumenti per cogliere in anticipo i segnali di pericolo, che in altre epoche non c'erano.

Miope, e astigmatica: una visione culturale che mette a fuoco solo le dimensioni lineari della causa e dell'effetto contingenti, non riuscendo a cogliere la multidimensionalità del reale e il carattere circolare dei processi. Abbiamo difficoltà a misurarci con la complessità. In Italia si continua a sostenere un "progresso" basato sull'uso indiscriminato delle risorse, mentre sulla prospettiva tecnologica, scientifica ed anche economica della sostenibilità punta molte delle sue carte il mondo sviluppato. Basta aprire un giornale tedesco o svedese, per accorgersene.

La smania del "tempo reale", l'appiattimento sul presente che la televisione ci ha inoculato come un virus, ci fan vivere sottoposti alla tirannia dell'urgenza. Prevale una logica impostata sul brevissimo termine, sul consenso immediato. Ciò che conta è il benessere di oggi, e poco importa se a causa di questo nemmeno ci sarà, un futuro.

La sfida più grande cui l'umanità deve far fronte è invece quella di garantirsi la sopravvivenza: la richiama "Le Monde" in prima pagina, ma tutte le nostre televisioni e molti dei nostri giornali paiono non averla colta.