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Leggi razziali e identità

Giudici e razza nell'Italia fascista

 
 
21 ottobre 2008
di Giuseppe Speciale
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Il dibattito che negli ultimi mesi si è acceso intorno al fascismo, al razzismo fascista e alle leggi razziali è una buona occasione per fermarsi a riflettere su una questione che riguarda direttamente l'identità della comunità nazionale italiana come parte della più grande e composita comunità europea.

Tra le diverse spiegazioni che gli storici danno dei motivi che spinsero il regime fascista a produrre una legislazione razziale possiamo ricordarne alcune: compiacere l'alleato tedesco; oppure attirare le simpatie degli stati dell'Europa dell'est, in cui allignava un forte antisemitismo e una forte avversione verso gli inglesi, considerati amici degli ebrei; o, ancora, combattere il bolscevismo, considerato come una delle tante facce dell'ebraismo mondiale.

Ma qualunque sia stata la ragione che indusse il fascismo all'adozione della legislazione razziale, qualunque sia stata la ratio delle norme che dovevano tutelare la razza italiana, è importante innanzitutto capire quali reazioni suscitò la legislazione razziale nella comunità nazionale. Nel cuore della civilissima Europa, nell'Italia del 1938, il legislatore limitò la capacità giuridica dei cittadini in base alla loro appartenenza ad una razza-religione e produsse un articolato corpus di norme che condusse al compiuto e perfetto isolamento - ancor prima che all'annientamento della vita - dei membri della minoranza ebraica; lo stato mise in moto una complessa e invasiva macchina amministrativa per attuare tale legislazione; l'opinione pubblica, adeguatamente preparata da un'attenta e ben orchestrata campagna di stampa, accolse nella sua larga maggioranza le novità legislative con acquiescenza cinica, opportunistica, timorosa, convinta o anche solo conformista.

La reazione della comunità nazionale può misurarsi, semplicisticamente ed esemplificativamente, con una scala ideale i cui gradi corrispondano al dissenso, all'acquiescenza, all'adesione.

Dissenso: per ovvi motivi - per il carattere totalitario del regime dittatoriale, per la coartata libertà di manifestazione del pensiero, per ragioni di opportunità politica - non si levarono voci né si mobilitarono coscienze in misura tale da bloccare la legislazione razziale o almeno da manifestare significativamente un consistente dissenso. Certamente non mancarono individuali prese di posizione e, soprattutto più tardi, manifestazioni di coraggiosa, quando non eroica, solidarietà.

Acquiescenza: non per convinto razzismo antisemita, ma per conformismo e per quieto vivere e perché non si era direttamente toccati nei propri interessi dalla legislazione razziale, si accettarono le norme volute dal regime.

Adesione: per convinta condivisione delle idee razziste, oppure per opportunismo, talora venato di cinismo, si approvò la nuova legislazione razziale.

Adesione acquiescenza e dissenso esprimono comunque una scelta, se non sempre convinta e consapevole, sempre voluta. Pertanto, utilizzando il termine consenso in un'accezione lata, comprensiva dell'acquiescenza e dell'adesione, non mi sembra arrischiato sostenere che le norme razziali riscossero il consenso della comunità nazionale, consenso talvolta convinto, talvolta imposto, talvolta indotto da una efficace campagna di stampa, talvolta, infine, dovuto a ragioni di opportunistica convenienza.

Il regime si avvalse dell'adesione di pochi per consolidare l'acquiescenza dei molti e gli intellettuali - molti, non tutti - si prestarono volentieri all'operazione. Alcuni, pur di accreditarsi come razzisti per procurarsi popolarità e garantirsi i favori del regime, abusarono del termine razza nei titoli delle pubblicazioni che riguardavano, per esempio, l'igiene 'bucco dentale' o la pedagogia infantile. Un noto botanico si impegnò a indagare le origini della razza italiana con la pretesa di fissare i fondamenti della politica razzista e un illustre letterato si prestò a scrivere la prefazione del volumetto.


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Non mi sembra, peraltro, che tale tipo di atteggiamento degli intellettuali nei confronti del potere si manifesti solo nelle dittature e non mi sembra, ancora, che possa sempre, sic et simpliciter, attribuirsi ad opportunismo o liquidarsi con il termine piaggeria. Non può infatti escludersi che alcuni di quegli intellettuali siano stati dei convinti razzisti e poi siano tornati sulle proprie convinzioni. E non mi sembra neppure il caso, ora, di indulgere a pruderie scandalistiche, per individuare chi seguì l'onda conformista.

Insomma, non mi sembra azzardato sostenere che le norme razziali riscuotevano, comunque, un diffuso consenso e potevano presentarsi come un riflesso del comune sentire degli italiani.
Gli italiani, appunto. Gli italiani ariani, quelli prossimi agli ebrei, quelli che potevano approfittare di quella legislazione razziale, ne capirono subito il significato essenziale, quello più vero, nascosto dietro la trama intessuta delle dettagliatissime regolamentazioni dei diritti e degli 'spazi' consentiti agli ebrei.

Il legislatore si era cimentato nella costruzione di un insieme di regole che da un lato sancivano meticolosamente esclusioni (dalla scuola, dal pubblico impiego, dalla proprietà, dalle professioni, etc.), dall'altro ponevano limiti a tali esclusioni e prevedevano garanzie per gli ebrei: si prevedevano le scuole e gli albi professionali per gli ebrei; si fissavano i limiti entro cui era possibile per gli ebrei continuare a possedere terreni e fabbricati e si statuiva la cartolarizzazione delle quote eccedenti tali limiti; si stabiliva che gli ebrei licenziati a causa delle leggi razziali potessero godere della pensione anche con un'anzianità di servizio inferiore rispetto a quella prevista dal diritto comune. Una legislazione siffatta era percepita dall'ariano, dall'italiano non ebreo, nel suo nucleo essenziale. Forse l'ariano coglieva superficialmente e rozzamente il senso che il legislatore aveva attribuito alle norme in difesa della razza, ma aveva lucidamente capito gli effetti ultimi e più veri che la legislazione razziale perseguiva: l'ebreo non era più un soggetto di diritti.

Nella nostra comunità è stato possibile tutto questo. Quanto è successo in quegli anni è un elemento costitutivo della nostra identità di italiani ed europei. Dobbiamo ancora fare i conti con questo passato. Una discussione seria può muovere solo da questa consapevolezza.


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I giudici e la legge

Il dibattito che si è acceso intorno al fascismo, al razzismo fascista e alle leggi razziali è occasione per ricordare come i giudici italiani interpretarono quelle norme, prodotte dal regime per escludere dalla comunità nazionale la minoranza ebraica, per comprimerne, fino ad annientarle, le potenzialità economiche e culturali, per mortificarne la dignità e l'identità.
Quelle norme, legittimamente poste (cioè prodotte nelle forme e con le procedure previste dal regime costituzionale vigente), furono applicate dai giudici dal 1938 al 1944, quando vennero espunte dall'ordinamento giuridico.

I giudici diedero concreta applicazione a quelle norme, ma si attennero, nella quasi totalità dei casi, ad una strategia interpretativa che nei fatti ridusse la portata eversiva delle leggi razziali. I magistrati considerarono le disposizioni razziali  norme dalle finalità e dal contenuto eminentemente politici, cioè norme dettate per materie e scopi ben determinati che non potevano informare di sé tutto l'ordinamento. Pertanto, la devastante potenzialità espansiva delle norme razziali fu limitata e arginata, nonostante il regime avesse "blindato" la legislazione razziale, riservando al Ministro dell'Interno la soluzione di tutte le questioni relative all'applicazione della stessa legislazione e vietando il ricorso al giudice ordinario o al giudice amministrativo contro le decisioni del Ministro.

Con un'interpretazione tanto ardita quanto consapevolmente forzata  i giudici italiani, nella maggioranza dei casi, non abdicarono alla loro funzione e non rimisero al Ministro dell'Interno le questioni sottoposte al loro giudizio.
Nonostante il nuovo codice civile, in vigore dal 1942, ma già pubblicato in Gazzetta nel 1938,  si aprisse all'art. 1 con una norma che limitava la capacità giuridica in base all'appartenenza alla razza, i giudici ripetutamente affermarono che la razza era un concetto estraneo all'ordinamento giuridico italiano.
Mentre in Germania, proprio in quegli stessi anni, il giudice applicava le norme razziali facendosi interprete del comune sentimento popolare, e conformandosi così all'ideologia e al razzismo nazista, in Italia i giudici continuavano a interpretare il diritto rifacendosi ai principi generali e alle astratte architetture formali dell'ordinamento. Questa esperienza nel 1946 condusse il Consiglio di Stato a suggerire al costituente l'enunciazione, all'interno della Costituzione, del principio ora contenuto nell'art. 113 della Carta, secondo il quale contro gli atti della pubblica amministrazione deve sempre ammettersi la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa.

Nell'Italia del 1938-1943, la magistratura, sia pure con qualche eccezione, innescò una sorta di strisciante opposizione all'introduzione di quelle norme nel nostro ordinamento, non si piegò, almeno non si piegò del tutto, al regime e al presunto comune sentimento popolare.
Ciò non significa che quelle norme non vennero applicate, significa solo che i giudici si impegnarono in ardite operazioni interpretative per arginare, per quanto possibile, la portata devastantemente espansiva delle norme razziali.

Nell'Italia in cui quelle norme non suscitarono un aperto dissenso, anche per il controllo assoluto della stampa e dell'opinione pubblica, i magistrati cercarono di fare argine.
Questa esperienza dovrebbe essere richiamata alla memoria tutte le volte che si lamenta uno scollamento delle pronunce dei giudici dal comune sentimento popolare o si proclama che il giudice non deve interpretare il diritto ma dave limitarsi ad applicarlo (come se potesse esistere un enunciato testuale, come la legge, insuscettibile di interpretazione).