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"Ebola non è stato ancora sconfitto, può tornare da un momento all'altro"

Fabrizio Pulvirenti, medico di Emergency sopravvissuto al virus contratto durante la sua permanenza in Sierra Leone, è stato intervistato nel corso della tappa catanese del Cortile dei Gentili

 
 
21 marzo 2016
di Giuseppe Melchiorri
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"Ebola ancora non è stato debellato. Nonostante le parole dell'Oms, secondo cui l'epidemia è finita in Liberia, Guinea e Sierra Leone, pensare di potere sconfiggere il virus è un'utopia. Siamo riusciti a controllare questa vasta epidemia, ma Ebola tornerà, non sappiamo dove, ma tornerà". Ad affermarlo è Fabrizio Pulvirenti, il medico, "paziente O" in Italia di Ebola, sopravvissuto, dopo ben 39 giorni di ricovero, al virus contratto durante la sua permanenza in Sierra Leone come volontario di Emergency.

Il medico catanese è stato intervistato sabato pomeriggio ai Benedettini dalla giornalista Rai Alessandra Mancuso, nel corso della tappa catanese del Cortile dei Gentili.
"Il primo ricordo dopo il mio risveglio dalla terapia intensiva - ha raccontato Pulvirenti - è rappresentato dai medici, dagli infermieri e dai macchinari ai quali ero attaccato. La prima cosa che ho cercato erano volti a me conosciuti. Mi sono girato e ho visto lo staff dell'ospedale Spallanzani di Roma, dove ero ricoverato. Ho visto il volto sorridente del direttore del reparto "Infezioni sistemiche e dell'immunodepresso" Nicola Petrosilllo. In quel momento ho capito che tutto stava procedendo bene, nonostante ho poi saputo che durante il mio ricovero in terapia intensiva c'erano state alcune serie complicazioni".

"Durante la terapia intensiva, infatti, avevo anche manifestato i sintomi della malaria, contratta anch'essa durante la mia permanenza in Sierra Leone. Nel momento in cui ho visto il volto sorridente di Nicola ho capito però che c'era la possibilità di riuscire a farcela. Il buco della memoria è qualcosa di drammatico, non avevo alcun ricordo dei miei giorni in coma; grazie all'aiuto degli infermieri sono riuscito a ricostruire quei giorni di assenza: è stata un'esperienza forte, perché l'ultima cosa che ricordo è la luce della mia stanza, poi c'è questo buco e poi il risveglio in un'ambiente diverso da quello che avevo lasciato. Ho potuto capire quello che provano le persone indotte in un coma artificiale, un sonno spesso popolato da incubi terribili. Durante i giorni della sedazione sognavo spesso un'enorme creatura terrificante, un enorme uccello nero (evidentemente la rappresentazione di Ebola fatta dal mio inconscio), che quasi cercava di convincermi a lasciarle il passo. Per fortuna, la voglia di luce ha avuto la meglio".

"Ma è solo grazie alla terapia intensiva, alla reidratazione e al supporto vitale se oggi sono qui a condividere con voi quella mia spaventosa esperienza. Che poi sono le stesse cose che abbiamo cercato di fare in Africa con i colleghi di Emergency. Io ricordo i primi giorni della mia permanenza in Sierra Leone: abitavamo nella stessa casa con Gino Strada e altri volontari. La prima cosa che mi hanno fatto fare è stata quella di analizzare i dati dei pazienti. Gli infettivologi, infatti, hanno tanti ruoli, fra cui quello di epidemiologi: dobbiamo in primo luogo cercare di capire dai dati disponibili l'andamento della malattia. Una delle prime cose che abbiamo capito è che mantenere in vita i pazienti significava dare loro la possibilità di sopravvivere all'infezione: come per tutte le malattie virali non sono i farmaci a guarire, ma è il sistema immunitario che elabora una risposta anticorpale che controlla l'infezione".
"Ebola non sfugge a questa regola - ha spiegato il dottore - ma è una malattia devastante perché investe tutti gli organi e quindi spesso non c'è il tempo affinché l'organismo possa produrre questi anticorpi. Quello che è stato fatto su di me è stato darmi un supporto vitale per dare al mio sistema immunitario il tempo di sviluppare una risposta anticorpale".

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"Da un'esperienza così devastante si viene segnati, ma come spesso avviene dopo avere visto la morte in faccia, appena ci si rende conto di essere sopravvissuti si fanno dei nuovi progetti. Spero, infatti, di potere tornare in Africa il prima possibile. Le epidemie spesso sono dovute a comportamenti sbagliati dell'uomo. La Sierra Leone è stata teatro di una sanguinosa guerra civile terminata nel 2001, in quegli anni, Emergency cominciò a costruire l'ospedale, che prima era solo chirurgico e poi è diventato anche pediatrico e ortopedico. E c'è un dato che a molti sfugge sul perché questa epidemia è stata così vasta: la Sierra Leone per poter finanziare la ricostruzione dopo lo scempio della guerra civile ha dovuto vendere i diritti di estrazione di utilizzo del suolo e del sottosuolo alle grandi compagnie occidentali che per estrarre diamanti e oro hanno disboscato le foreste. Sono state costruite diverse infrastrutture non utili ai cittadini (come rete elettrica, rete fognaria o acquedotti), ma autostrade necessarie per trasportare materie prime. Il virus ha così viaggiato più velocemente raggiungendo diversi punti dell'Africa. Per evitare simili tragedie in futuro l'Occidente deve capire che l'Africa non è un salvadanaio. Bisogna evitare i continui disboscamenti che mettono in contatto la fauna selvatica con l'uomo: cominciare a razionalizzare il commercio del legno potrebbe essere un primo intervento profilattico ai fini di limitare l'insorgere di nuove epidemie".

"Dopo la guarigione - ha poi affermato Pulvirenti - mi è rimasta la voglia di rimettermi in gioco, di continuare il lavoro che ho iniziato, anche per sdebitarmi con tutti coloro che mi hanno aiutato e che mi hanno mostrato la loro solidarietà. Dopo che si è diffusa la voce della mia malattia, infatti, è immediatamente partita la ricerca di sangue compatibile con il mio. E io ho potuto sentire la solidarietà di questo popolo che cercava in qualche modo di ricambiare una delle persone che era lì per aiutarli: nell'arco di 20 minuti si sono presentate quattro persone che volevano donarmi il loro sangue. Questo episodio dà il senso del valore della nostra presenza in quelle zone del mondo e di come il lavoro dei volontari viene visto dagli abitanti".

"La percezione della maternità o della paternità non dipende dal colore della pelle. Un padre si sente tale in Sicilia, come in Lombardia, come in Africa; e come noi vorremmo per i nostri figli e per noi stesse le migliori cure, allo stesso in ogni altra parte del mondo i genitori vorrebbero il meglio per i propri figli. E' questa la missione di Emergency: dare a chi non le ha le cose che vorremmo per noi stessi, cioè trattare la malattia e il malato al di là del colore politico e del credo religioso. La malattia e il malato sono al centro della missione di Emergency: il nostro ruolo è quello di affrontarle nel migliore modo possibile".

"Dalla mia esperienza ho ereditato un'enorme senso responsabilità -ha concluso il volontario di Emergency - dovuta agli attestati di stima che ho avuto dalle più alte cariche dello Stato. Quando si diventa simbolo di qualcosa (anche se io non mi sento né eroe, né martire ma una persona normale che vive di passioni e di convinzioni) è necessario avere un autocontrollo non indifferente. Diventare un personaggio pubblico limita le proprie scelte, condiziona l'esposizione del proprio pensiero".