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La ricerca scientifica viaggia su Twitter

Davide Bennato (Sociologia dei media digitali): chiarire i ruoli, rendere 'notiziabili' le scoperte, individuare i pubblici e sfruttare le occasioni di visibilità

 
 
13 maggio 2015
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Pensieri, eventi, immagini, sproloqui di vario genere. I social network sono diventati oggi, per le loro caratteristiche tecnologiche e per le loro dinamiche di utilizzo, dei veri e propri spazi di relazione sociale, che fanno ritrovare sullo stesso pulpito tanto i teenagers 'smanettoni' quanto i più seriosi adulti e persino i nostalgici anziani.
Per il professor Davide Bennato, docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi e Sociologia dei media digitali nel dipartimento di Scienze umanistiche dell'Università di Catania, uno dei massimi studiosi italiani di questo fenomeno, Facebook, Twitter & co. andrebbero utilizzati seguendo le strategie delle relazioni pubbliche: per costruire, cioè, dei rapporti, e non invece come mezzi di comunicazione di massa, attraverso i quali diffondere dei contenuti.

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Ma quanto questi social media possono risultare utili, ad esempio, ad un ricercatore scientifico per garantire massima visibilità alla propria ricerca o alla propria attività professionale? E quali regole vanno rispettate? «Innanzitutto - spiega Bennato, che di recente ha tenuto un seminario su questo argomento ai dottorandi di ricerca dell'Università di Catania - occorre far capire sempre a chi legge qual è il proprio ruolo. Uno degli errori che vengono commessi più spesso - dai ricercatori, ma non solo - è quello di non evidenziare bene la propria identità. Quando si parla di una ricerca, a che titolo si sta parlando? È la propria ricerca? In questo caso, che ruolo si occupa: direttore o membro del team? Se la ricerca, invece, è quella di un collega su cui è stato chiesto un parere, per quale motivo se ne parla? Perché si appartiene allo stesso settore? In altre parole, è sempre bene specificare la propria identità professionale e su internet ci sono modi diversi per farlo: dalla scrittura di una biografia riconoscibile su Twitter a un curriculum accademico dettagliato su Linkedin».

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In secondo luogo, secondo il docente catanese, è necessario chiarire gli scopi o i risultati dell'attività di ricerca, che è sempre un iter complesso schematizzabile in tre fasi: il processo di ricerca, ovvero mentre l'attività è in corso; i risultati, quando la ricerca è giunta a delle conclusioni; l'impatto, cioè la discussione delle conseguenze della ricerca stessa. «Bisogna sempre decidere quale tra gli aspetti della ricerca comunicare - afferma Bennato -, perché cambiano sia i toni che i modi di raccontare. Raccontare è una parola chiave strategica: evitiamo di pensare che la ricerca debba per forza interessare un pubblico vasto semplicemente perché la consideriamo di per se stessa importante. A meno che non si stia parlando con propri colleghi, l'importanza di una ricerca non è sempre lampante, soprattutto se non si appartiene a quello specifico settore disciplinare. Per questo motivo è necessario identificare una leva comunicativa, un elemento di notiziabilità, qualcosa cioè che valga la pena di essere raccontato. E non bisogna avere timore di usare tutte le tecniche a disposizione: un risultato curioso, una credenza che viene sfatata, un aneddoto che è conseguenza della ricerca, una 'infografica' affascinante. L'obiettivo chiave è catturare l'attenzione: è questo è tanto più vero quanto più si usano i social media, in cui il flusso impetuoso di contenuti impedisce spesso di focalizzare l'attenzione su notizie davvero interessanti».

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Mondo accademico, giornalisti, addetti ai lavori: a chi deve preferire rivolgersi chi intende comunicare una 'scoperta', che si sia già dimostrata 'notiziabile'? «I pubblici possono essere diversi - distingue il prof. Bennato -: i colleghi (del proprio campo disciplinare o di settori contigui), i giornalisti (specializzati o meno) e i decisori (esponenti politici chiamati a legiferare su fenomeni legati alla ricerca). Sono pubblici molto difficili da separare, poiché negli spazi dei social media essi spesso si sovrappongono. Per questo occorre definire sin dall'inizio come e a chi si intende comunicare, altrimenti si rischiano incomprensioni che potrebbero avere delle conseguenze nel dibattito pubblico».
A tal fine, l'uso strategico dei social media è un'assoluta necessità, poiché l'obiettivo è comunque sempre quello di catturare l'attenzione. «Non bisogna avere paura di essere monotematici, nel senso di ripetere senza timore la leva comunicativa che si è deciso di adottare, e soprattutto ridondanti, ossia dire la stessa cosa in modi simili sulle diverse piattaforme - Facebook, Twitter, Linkedin, Google Plus, Youtube, Slideshare, Wikipedia - se si vuole che il contenuto relativo alla propria ricerca abbia la massima circolazione possibile. Ci sono poi piattaforme specializzate - Academia.edu, Research Gate, Scholarpedia, Mendeley - che aiutano a comunicare soprattutto con i colleghi ricercatori. Se il lavoro con tutti questi strumenti sembra improbo e ci si vuole concentrare su una sola piattaforma, Twitter allora è la scelta giusta: poiché diverse analisi confermano la sua validità come strumento per la massima circolazione dei contenuti, anche per quanto riguarda la ricerca scientifica».

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Avere la possibilità di rivolgersi ai diversi pubblici è un'opportunità da non sottovalutare, conclude il docente, per questo motivo non bisogna avere timore di usare tutte le occasioni a propria disposizione: «Il lavoro che è stato fatto per giungere a un risultato scientifico merita di essere raccontato - sostiene Bennato -, soprattutto per contrastare la narrativa mediale che vuole gli atenei come un posto per clientele e popolato da persone che non si sa cosa facciano realmente. L'università ha sicuramente dei problemi ma, come spesso capita, il diavolo non è mai così brutto come lo si dipinge».