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La coesione sociale e lo sviluppo del Mezzogiorno

Alla Scuola Superiore un intervento dell'ex ministro Piero Barucci

 
 
01 aprile 2014
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"Tutti i suoi studi sono legati da un filo rosso, ossia la scelta di approfondire l'esperienza e le teorie di quegli economisti che hanno fatto sì l'Italia diventasse uno dei paesi industriali più evoluti, attraverso la brillante intuizione di avviare una ricerca sulla cultura economica individuale nel periodo tra le due guerre". 
Così la professoressa Pina Travagliante, ordinario di Storia del pensiero economico nell'Università di Catania, ha introdotto il prof. Piero Barucci, ordinario di Storia delle dottrine economiche alle Università di Siena e di Firenze, che martedì 1° aprile è stato ospite della Scuola Superiore di Catania per parlare di "Coesione sociale e sviluppo in tempo di crisi", focalizzando in particolare il problema del Mezzogiorno.

Barucci è stato in passato preside della Facoltà di Economia e Commercio di Firenze, presidente del Monte dei Paschi di Siena e dell'Associazione Bancaria Italiana. È stato ed è inoltre presidente di numerose fondazioni e comitati scientifici, oltre ad aver ricoperto l'incarico di Ministro del Tesoro e della funzione pubblica nel governo Amato 1992-93 e Ministro del Tesoro nel governo Ciampi 1993-94; attualmente è componente dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato e presidente del comitato scientifico della rivista "Storia del pensiero economico". 

Quando si cita il suo nutritissimo curriculum, Barucci ci scherza sopra: ""La vita mi ha insegnato di non prendermi mai sul serio, ma ringrazio a cuore aperto - spiega -. La mia esperienza di vita è molto contraddittoria. Ho ricoperto alcuni incarichi di rilievo, ma quando vado fuori sono conosciuto come tifoso della Fiorentina. La contraddizione più piacevole è questa", racconta, ricordando le sue partecipazioni da accanito supporter viola ad una trasmissione sportiva di successo di qualche anno fa, condotta da Fabio Fazio. Ma ribadisce, per fugare ogni dubbio, nonostante abbia lasciato l'università da 31 anni, "da quando mi son messo a fare il banchiere, essa continua ad essere il mio amore struggente. Forse perché è l'unico concorso che ho vinto per meriti, gli altri li ho vinti per occasioni".

 "Il tema trattato questa sera, la coesione sociale,  sta molto a cuore all'università che ha a che fare col futuro delle generazioni - ha esordito il rettore Giacomo Pignataro -. Significa parlare principalmente della possibilità del lavoro, che ogni individuo possa avere una prospettiva di vita. Una società può essere coesa se ha una prospettiva e un futuro, e ciò dipende innanzi tutto dal fatto che vi siano i giovani, dal fatto che la nostra società continui a garantire un futuro ai giovani". 
Ma i numeri di oggi sono drammatici, ha rilevato il rettore, specie se si guarda all'emorragia di giovani: "La perdita di giovani qualificati che abbandonano la Sicilia non si può considerare sintomo di una malattia in un mondo globalizzato - ha osservato Pignataro -. Il problema è che la mobilità è a senso unico, la nostra terra non attrae giovani come invece li esporta. Il dato che più mi preoccupa è che su 100 giovani che decidono di immatricolarsi, 25 decidono di farlo fuori dalla Sicilia. Lo fanno per responsabilità delle nostre università, ma anche pensando alla propria prospettiva di vita, che si costruisce a partire dall'università e dalla rete di relazioni che si costruiscono tramite essa. Sappiamo di perdere giovani nella transizione tra triennio e biennio per le stesse ragioni".

Ma l'emorragia riguarda e caratterizza tutto il Paese, seppur con una intensità non uniforme. "I dati - ha aggiunto il rettore - ci dicono che nell'arco di 10 anni ci sono state riduzioni di ben 80.000 iscritti. A fronte di un numero di diplomati che invece è rimasto costante nel tempo. Sempre meno diplomati decidono quindi di iscriversi all'università: una parte si mette subito in cerca di lavoro ma una buona parte di loro non lo è e non è inserita neanche in diversi percorsi di formazione. Quale risposta dobbiamo pertanto dare a un dramma che rischia di diventare strutturale? La risposta deve venire dal territorio che è un insieme di attori, tra essi deve potersi condividere un progetto comune, ognuno nell'ambito della propria responsabilità".

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Barucci ha colto alcuni degli spunti forniti dagli interventi introduttivi per esaminare complessivamente gli aspetti dell'attuale crisi economica, soffermandosi poi su temi legati al Mezzogiorno.
"Non c'è continuità, a mio avviso - ha affermato - tra la crisi del 1929 e quella di oggi. Quella del '29 fu una crisi diversa nei vari Paesi, che colpì chiunque in qualunque parte del mondo manifestando elementi come carenza di domanda, protezionismo, crollo, assenza di una moneta unica. La crisi attuale, che si verifica nonostante l'economia mondiale sia cresciuta, è completamente diversa: non è globale, a differenza di quanto si pensi, non è causata da sovrapproduzione ma da debito, e per questo più difficile da digerire, anche perché a drammatizzare il tutto è il fatto che assistiamo ad un processo grazie al quale l'intero sistema dei mercati mondiali si è integrato - capitali, conoscenze, uomini e imprenditori si muovono in tutto il mondo". 

Una soluzione la indica, secondo Barucci, l'esempio della Germania, che appena 10 anni fa era considerata soggetto debole dell'Europa ed oggi, invece, la "superstar". "Secondo i numerosi studi - ha riflettuto -, il segreto sta nei salari tedeschi che sono del 160% maggiori di quelli italiani, mentre gli anni di lavoro sono più corti. Le indagini direbbero che la Germania ha sperimentato non tanto un sistema innovativo, ma una situazione nuova nel campo della governance tra consigli di lavoro, datori e sindacato per definire i saggi di crescita. Si è molto discusso in Italia se il vincolo della concertazione tra forze politiche e sindacati, che introdussi io nel '93 da ministro, non sia un valore, piuttosto un modo per perder tempo. In Germania invece questo sistema tripolare è stato fondamentale per la crescita del Paese".

Per quanto concerne il Mezzogiorno - ha osservato Barucci - in ambito europeo il tema della coesione è stato sempre presente. "L'Italia, in questo senso, ha avuto un grande ruolo - ha concluso -, ma non è stato mai approfondito il destino del Mezzogiorno in conseguenza dell'unione monetaria. Perché la moneta unica non presume che tutti i Paesi devono crescere allo stesso modo, né può garantirlo. Ma il Sud ha visto il fallimento di tante politiche, gode di pessima stampa, ed è sempre additato a cattivo esempio di funzionamento delle istituzioni, a cui è legato il saggio di crescita di un Paese. Così come incide sulla crescita la presenza asfissiante della criminalità organizzata".