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Notizie
Unione europea

'E' morto il re, vive il re!'

A proposito dell'entrata in vigore del Trattato di Lisbona

 
 
27 novembre 2009
di Nicoletta Parisi*

1. La ratifica del Trattato di Lisbona da parte della Repubblica Ceca rappresenta la conclusione dell'ultimo processo di riforma dell'Unione iniziato con la "dichiarazione di Laeken" del 15 dicembre 2001: esso è destinato ad entrare in vigore il mese successivo al deposito dell'ultimo strumento di ratifica, probabilmente dicembre.

E' il momento, dunque, di valutare i costi e i benefici di un così lungo travaglio politico, misurati alla luce del mandato allora conferito alla "convenzione" presieduta da Valery Giscard d'Estaing. Secondo quanto ivi espresso, gli Stati membri dell'Unione avvertivano in modo grave l'urgenza di avviare l'Organizzazione verso una revisione che ne approfondisse la legittimazione democratica, meglio garantendo i diritti delle persone, e che ponesse le basi di una significativa presenza dell'Europa sulla scena internazionale.

Come noto, il progetto avviato in quella sede prese il nome di "Costituzione europea". Negoziato e pur firmato (a Roma il 29 ottobre 2004) il trattato che la conteneva non entrò in vigore per l'opposizione dei cittadini francesi e olandesi. Esso fu abbandonato per un nuovo negoziato, chiusosi a Lisbona il 13 dicembre 2007 con la firma del "Trattato che modifica il Trattato sull'Unione europea e il Trattato che istituisce la Comunità europea".
La non breve digressione storica - apparentemente inutile - è necessaria per dar conto del travaglio che l'idea e il progetto di integrazione europea stanno attraversando.

2. Ci si può domandare, anzitutto, se l'abbandono della "Costituzione europea" e la stipulazione del Trattato di Lisbona rappresentino un passo indietro o, al contrario, se l'espressa volontà di "decostituzionalizzare" il Trattato d'Unione nell'occasione della sua ultima revisione abbia portata meramente "cosmetica".

E' mia convinzione che l'attuale assetto riproduca nella sostanza quanto contenuto nel Trattato costituzionale. E' vero infatti che il Trattato di Lisbona elimina ogni riferimento alla "Costituzione" e ai suoi simboli (i quali tuttavia restano per sedici degli Stati membri, tra i quali l'Italia, per loro espressa volontà). E' altresì vero che la Carta dell'Unione (denominata di Nizza) sui diritti fondamentali delle persone non è più incorporata nel Trattato. Tuttavia la maggior parte delle modifiche sostanziali previste dal Trattato costituzionale sono conservate nel Trattato di Lisbona.

Così è per la struttura complessiva dell'Organizzazione: cancellata la Comunità europea scompare di conseguenza la struttura in cosiddetti "pilastri": tutte le politiche conferite all'Unione - anche se gestite con procedure decisionali diverse - sono unificate entro un unico "contenitore". Ciò rappresenta un indubbio progresso per le persone che (anche straniere) vivono e lavorano nell'Unione: le politiche europee saranno reciprocamente maggiormente coerenti, alla luce dell'obiettivo di fare dell'Unione uno "spazio di libertà sicurezza e giustizia" oltre che un "mercato interno".

E' questo un progresso valorizzato dalla portata vincolante della Carta di Nizza, pur non incorporata nel Trattato: l'Unione ha così "preso possesso" saldamente della materia relativa al trattamento delle persone dalla prospettiva sia delle loro prerogative fondamentali come dei limiti che queste incontrano nel loro esercizio a motivo della tutela di interessi collettivi, qual è per esempio quello alla sicurezza. Il terreno tradizionalmente appartiene al diritto costituzionale statale: l'Unione per questa via aumenta la propria legittimazione democratica.

Al pari del Trattato costituzionale il Trattato di Lisbona dichiara la già esistente soggettività internazionale dell'Unione; chiarisce la ripartizione di competenze fra Stati e Organizzazione; migliora in alcuni aspetti le procedure di funzionamento delle istituzioni; rafforza il ruolo dei parlamenti nazionali in funzione di maggior rispetto del principio di democrazia.
La verità è che sia il Trattato costituzionale che l'Accordo di Lisbona hanno codificato in gran parte conquiste avvenute in via di prassi, anche in virtù dell'intelligente ed equilibrato impulso della Corte di Giustizia dell'Unione, confermando il tratto caratteristico del processo di integrazione europea, quello di consolidare nei trattati i progressi radicatisi nei fatti.

Il risultato è che oggi in Europa si è organizzata istituzionalmente una forma di integrazione ineguagliata - ma imitata - rispetto a quante realizzate in altre aree regionali. Essa registra conquiste veramente importanti, quali quella di un "mercato interno" (affiancato da un'unione doganale e una moneta unica), che ha contribuito non solo al progresso economico, ma soprattutto a stabilire le basi di una pace duratura tra i popoli europei.

Il successo dell'integrazione in campo economico ha innescato un processo di ampliamento delle competenze dell'Unione a sfere sempre più ampie di relazioni interindividuali: si è detto dell'obiettivo di fare dell'Unione uno "spazio di libertà, sicurezza e giustizia"; aggiungo che le politiche dell'Unione riguardano già oggi la protezione dei consumatori, il diritto di famiglia, la tutela del diritto alla riservatezza, dell'ambiente, della sicurezza nell'approvvigionamento energetico, e così via.

3. Resta tuttavia un interrogativo di fondo di più ampia portata, relativo al fatto se un così lungo negoziato sia stato utile a sciogliere quei nodi che hanno impedito all'Unione di raccogliere le sfide di un diverso assetto mondiale politico ed economico-finanziario affermatosi con il disfacimento dell'equilibrio bipolare nato nel secondo dopo-guerra e perdurato fino alle soglie dell'ultimo decennio del XX secolo. In altri termini, occorre interrogarsi sulle prospettive del processo di integrazione europea.

Già l'espressione che utilizzo ("processo") è significativa: la cooperazione fra i Paesi europei è stata sempre contraddistinta da un dinamismo, che si è tradotto, a seconda dei periodi, in un lento o più veloce avanzamento dell'integrazione.
Di contro, non è possibile nascondersi che quel primitivo modello che aveva preso le mosse da un progetto di integrazione funzionale agli aspetti economici risulta oggi del tutto inadatto proprio in conseguenza del successo conseguito.

Si avverte che il fenomeno di integrazione non è sempre accompagnato e sostenuto dalla consapevolezza di esso nelle persone al cui benessere non solo economico esso è indirizzato. E' mancato il coraggio di affiancare all'unione economica - che si è realizzata per i Paesi dell'area euro - una competenza dell'Unione in materia di politica economica, senza la quale la stessa moneta unica potrebbe essere un risultato effimero. Ancora, quello stesso modello - nato per sei soli Stati e oggi allargato a ventisette - risulta inadeguato: le decisioni sono spesso impedite dall'esigenza di conseguire l'unanimità; la loro urgenza è spesso contraddetta da procedimenti farraginosi e da istituzioni appesantite per il grande numero di componenti; le diverse attuali modalità decisionali sono inadatte a consentire lo svolgimento di relazioni internazionali dell'Unione, che invece il Trattato le consegna.

L'impressione che si ricava dagli otto anni trascorsi nelle strette di un negoziato a tappe è che gli Stati siano consapevoli che la mancata risoluzione di alcuni nodi fondamentali impediscano il progresso di un processo così ben avviato nei primi anni Cinquanta del secolo scorso. Tuttavia essi stentano a trovare la determinazione politica necessaria per affrontare in radice quei nodi.

Si avverte con chiarezza la mancanza di "colpi d'ala", di menti politiche lungimiranti che - al pari di quanto progettato nel secondo dopo-guerra - fondino una nuova modalità di cooperazione fra i popoli europei. Ancor di più, si avverte il disinteresse dei cittadini europei per un grande progetto politico che consentirebbe loro di contribuire a pieno titolo a indirizzare la convivenza fra Stati e popoli in questo nuovo millennio, già agli esordi complesso, travagliato da crisi e fenomeni difficilmente governabili.