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"Meglio impolitico che ipocrita"

Un contributo al dibattito sul d.l. 11/2008 da parte del preside di Scienze politiche, Giuseppe Vecchio

 
 
01 dicembre 2017
di Giuseppe Vecchio*

L'estate rischia di fare svanire, nella luce tremolante per la calura, la visione esatta di ciò che sta succedendo nella ristrutturazione del sistema universitario per effetto del d.l. 112/2008, DECRETO-LEGGE 25 giugno 2008, n. 112 Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria (Art. 16. Facoltà di trasformazione in fondazioni delle università Art. 66. Turn over) in fase di conversione.

I punti essenziali di interesse universitario sono due: il blocco del 'ricambio' fisiologico pensionamenti/assunzioni, e la prospettazione della possibilità di trasformare le università in fondazioni di diritto privato. Credo che ambedue le norme abbiano una rilevanza strategica per il futuro degli atenei e credo, pure, che si debbano considerare nella loro possibile connessione.

La norma che riduce il 'ricambio' a un quinto dei pensionamenti per i prossimi cinque anni, elevandolo, poi, a un mezzo per i tempi successivi, è certamente una norma 'pesante' che produrrà effetti sgradevoli sulla storia personale di molti Colleghi. Con la prudenza e con il rispetto per la vita e le legittime aspettative di ciascuno, tuttavia, vanno fatte alcune dovute, anche se amare, riflessioni.

In primo luogo, come emerge, pure, dagli atti parlamentari, la norma non limita le assunzioni in servizio (e i relativi finanziamenti) dei vincitori di concorso per ricercatore banditi in esito alla norma speciale di finanziamento (peraltro reiterata nello stesso d.l.).
In secondo luogo, la previsione di pensionamenti di docenti per il prossimo quinquennio sembrerebbe (il condizionale è d'obbligo, in una fase di instabilità normativa sull'età pensionistica di una categoria a scadenze articolate e d'annata) essere superiore al quaranta per cento dell'intero corpo docente.
In terzo luogo, le università sono obbligate a programmare la loro offerta didattica in ragione del numero di docenti di ruolo di cui dispongono, per rispettare i 'requisiti minimi' di qualità (più realisticamente: di 'decenza').

L'incrocio delle considerazioni che precedono conduce alla seguente possibile conclusione: il legislatore sta ponendo l'università di fronte alle proprie responsabilità per tentare di conseguire il risultato multiplo a) di impedire che tutte le risorse vengano utilizzate per concorsi che non comportano effettivi incrementi di docenza, b) di impedire che si formi nuovamente, per effetto di un 'ricambio' incontrollato, un modello 'ad onda generazionale' dell'organico universitario, c) di 'governare' i processi di reclutamento, senza aprire accessi incontrollati, ma assicurando il mantenimento di livelli numerici e generazionali utili per il conseguimento dei 'requisiti minimi'.

La vera difficoltà della manovra che si è appena tentato di esplicitare sta, innanzitutto, nella sua 'ipocrisia'; in secondo luogo, nella sua incapacità di offrire a coloro che ne subiranno gli effetti negativi vie di uscita onorevoli e compromessi accettabili.
La manovra è 'ipocrita', perché non dice la verità e, utilizzando pretesti finanziari, persegue obiettivi di indirizzo politico ben più complessi e articolati, sui quali si dovrebbe discutere più approfonditamente e seriamente, specie in materia di rapporto qualità/quantità della docenza.
La manovra è 'ingiusta', perché, utilizzando la nota tecnica dell'eliminazione del bambino insieme all'acqua sporca, cancella in un sol colpo le legittime aspettative di migliaia di docenti che sono giustamente in attesa di vedersi riconosciuti meriti e qualità, nonché le legittime aspettative del sistema (accademico e sociale) di verificare se i docenti che fanno funzionare l'università di oggi stanno continuando a studiare e a produrre scientificamente.

Se non si avesse l'ipocrisia di sostenere che un ricercatore che supera un giudizio per associato o un associato che supera un giudizio per ordinario va a coprire un 'nuovo' ruolo, si potrebbe tentare di trovare la soluzione ai problemi di verifica e riconoscimento del merito, separandoli da quelli finanziari. Allo stesso modo, non è detto da nessuna parte che chiunque sia idoneo per un certo livello deve necessariamente essere assunto.
Se non fossimo 'ipocriti', diremmo che è possibile immaginare un sistema con organico di livelli e di connessi poteri accademici definiti; che il passaggio da un livello all'altro, per chi è già inserito nell'organico è costituito da un riconoscimento scientifico nazionale e da una accettazione accademica locale; che tale operazione non deve comportare alcun effetto sulla progressione dei costi di docenza. Tutto si ridurrebbe a capire, da parte di tutti, che si sta provando a proporre un compromesso accettabile e neppure tanto difficile.

La connessione tra la norma che blocca il ricambio e la norma che 'consente' alle università di trasformarsi in fondazioni private è caratterizzata da una ancor maggiore 'ipocrisia', della quale deve essere esplicitata, peraltro, la pericolosa bilateralità.
Il significato della norma, anche alla luce della veniente disciplina del reclutamento, è quello di attribuire alle università la responsabilità di scegliere (nei limiti in cui tale scelta è possibile) tra una regolazione 'leggera' condizionata dal peso finanziario delle decisioni e una regolazione rigida e centralizzata, costo della scelta di sopravvivere di finanza pubblica derivata. Invero, la responsabilizzazione non è solo a carico delle università, alle quali la norma è rivolta in via diretta, bensì è anche a carico delle società locali e delle istituzioni alle quali i singoli atenei fanno riferimento. Forse si potrebbe parlare di una sorta di federalismo universitario alle prime mosse.

Da un lato, la bilateralità dell'ipocrisia consiste nel fatto che le autorità centrali dissimulano le scelte reali facendo riferimento all'originaria autonomia delle istituzioni universitarie e al dato inconfutabile che la 'pubblicità' delle università non ha mai rappresentato (né poteva o doveva rappresentare) una vera e propria amministrativizzazione. Dall'altro, l'ipocrisia consiste nel fatto che gli appartenenti al mondo universitario fingono di non sapere che non è più possibile vivere di finanza derivata senza essere costretti, prima o poi, a presentare i conti, economici e sociali, che esplicitano responsabilità e risultati.

È veramente difficile, quindi, discutere dei problemi dell'università se non ci si rende conto che le due norme, apparentemente limitate nella loro portata, aprono, in effetti, orizzonti assai vasti. È importante che la vastità dell'orizzonte non venga offuscata dal tremolante effetto ottico della calura estiva.
Sarà necessario affrontare, al più presto e con la massima urgenza, i due temi sollevati dal decreto (e forse tanti altri) prima che una riforma strisciante e realizzata a piccoli tasselli, indifferentemente da governi di diversa ispirazione, probabilmente necessaria per lo stato dei rapporti fra università, società e istituzioni, ci faccia trovare in situazioni che non desideriamo e che non possiamo governare.

Sarebbe opportuno che si determinasse un circuito virtuoso di comunicazione e di riflessione fra atenei, istituzioni locali e forze economiche e sociali, per scegliere il più serio percorso per affermare e difendere il ruolo di istituzione di sviluppo dell'università".

* Preside della Facoltà di Scienze Politiche - Università degli studi di Catania