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«Vi racconto come ho vinto il Mondiale»

Il ct degli azzurri campioni di Germania 2006, Marcello Lippi, ha incontrato gli studenti dell'Università di Catania

 
 
16 aprile 2008
di Mariano Campo
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«Spalti gremiti al limite della capienza» nell'aula magna della facoltà di Agraria per incontrare Marcello Lippi, il tecnico viareggino che due anni fa ha condotto la nazionale italiana a vincere i campionati del mondo in Germania.

Lui, il "mister", affronta con disponibilità e franchezza e, talvolta con una tagliente ironia, come d'abitudine, l'assalto di microfoni, telecamere e irriducibili cacciatori d'autografi, si dice pronto a parlare di tutto tranne che delle attuali scelte del ct Donadoni, del mercato della Juventus o della violenza degli ultras, regala solo qualche affettuosa battuta di stima per Walter Zenga, neo-allenatore del Catania e portierone dell'Inter degli anni '80. «Sono qui per parlare della costruzione del gruppo in una squadra di calcio - rifiuta ogni altra divagazione da bar dello sport -, da quando ho lasciato la nazionale mi invitano le università e le aziende per spiegare la mia filosofia e raccontare la mia esperienza. E ai giovani, se lo accettano, mi sento di dare qualche consiglio che potrà essere utile nella loro vita».

Niente discussioni tecniche sull'efficacia del 4-3-3 o del 4-4-2, quindi; nessuna indiscrezione sul suo futuro o giudizio (benevolo o malevole che sia) sui colleghi o sui calciatori del momento. Lippi concentra la sua attenzione sugli uomini, non si risparmia nell'elogio di "Ringhio" Gattuso o di "Matrix" Materazzi («tipi tosti, ma fuori dal campo persone eccezionali che sanno legare splendidamente con i loro compagni»), e tendenzialmente boccia «le prime donne»: «I 'fenomeni'? Se si comportano poi come delle 'teste di cavolo' e non si mettono al servizio della squadra - sentenzia, senza giri di parole - meglio buttarli fuori dal gruppo. I veri fuoriclasse sono quelli che sanno essere determinanti per il risultato della squadra dentro ma soprattutto fuori dal campo».

Motivazione, leadership, complicità, autostima. Sono questi i concetti che ritornano nelle sue parole, e che - pur senza assumere mai un tono troppo accademico -, suggerisce «a chiunque abbia la responsabilità di dover guidare un'istituzione o un'impresa o semplicemente un team di collaboratori».


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«Il segreto del mio mondiale, del nostro mondiale, vinto a Berlino contro la 'bestia nera" Francia, sta tutto là», taglia corto, subito dopo il tormentone "Po-po-po-po" con cui lo accolgono all'ingresso in aula e la presentazione del rettore Antonino Recca. «Abbiamo cominciato due anni prima, subito dopo la delusione dei campionati in Giappone e Corea, mettendo su un gruppo di giocatori che sentissero prima di tutto la convocazione in nazionale come un riconoscimento. E che, grazie anche alla volontà del selezionatore, si sentissero partecipi di un progetto e tutti importanti alla stessa maniera». Dalle sofferte qualificazioni, alle immancabili critiche della stampa, fino all'approdo alla fase finale, il "metodo Lippi" è stato quello di tenere sempre sotto controllo gli aspetti psicologici e morali degli uomini da lui scelti, «altrettanto importanti che quelli tecnici e tattici». Senza paura di affrontare gli scetticismi degli osservatori, con il coraggio di non «farsi mai rovinare il proprio lavoro o i sacrifici da chi, anche all'interno di un gruppo, tende a remarti contro».

Racconta così la sua «fantastica esperienza», a briglia sciolta, lui che si ritiene un «uomo fortunato, per aver vissuto, relativamente al mondo del calcio, la gioia più grande, e averla potuta condividere con 56 milioni di italiani e, in particolare, con i tanti emigrati all'estero». Racconta gli anni della Juve pluridecorata, l'abbandono della "vecchia Signora", per mancanza di nuovi stimoli, la chiamata in nazionale, vissuta come la «realizzazione del sogno che tutti abbiamo da bambini».

E il verificarsi, pian piano, di piccoli miracoli "sportivi" in quel di Coverciano, sede del ritiro azzurro, manifestazioni di vera solidarietà ed amicizia fra calciatori che fino alla sera prima se l'erano date di santa ragione. «Volevo che la nazionale fosse vissuta dai calciatori - aggiunge Lippi - come un piccolo paradiso in terra, al quale aspirare con tutte le proprie forze».

Ascoltano in religioso silenzio gli oltre 500 studenti presenti nell'aula, assaporano gli aneddoti "dietro le quinte", in cerca - magari - di qualche indiscrezione su questo o quel campione. «Se il gruppo è buono - insiste il tecnico di Viareggio -, i leader nascono naturalmente, perché lasciano emergere le proprie caratteristiche - la bravura, il carisma, la capacità di trascinare - senza creare invidie e gelosie. Se il gruppo è buono, anche le sconfitte vengono vissute come piccoli intoppi da accettare nell'ambito di una programmazione che ha obiettivi più vasti. E in questo senso, anche i cosiddetti 'gregari' devono sentirsi importanti, perché per compiere un'impresa c'è bisogno di tutti: io al Mondiale ne ho schierati 21 su 23, non era mai successo prima. Lo stopper Materazzi ha fatto il goleador e io ho affidato il rigore decisivo della finale al terzino Fabio Grosso, che certo neanche lui se l'aspettava. Ed ero sicuro che avremmo vinto, perché non avevamo la presunzione di essere i più forti al mondo, ma, al tempo stesso, non ci sentivamo inferiori a nessuno».


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L'autostima è cresciuta partita dopo partita, prestazione dopo prestazione. Anche quando si è parlato di "colpi di fortuna", questi sono stati interpretati come il giusto premio ad un duro lavoro condotto nell'arco di due anni. E alla fine «la gioia immensa di alzare quella coppa, che oggi continuo a condividere con tantissimi giovani che magari, nel 1982, all'epoca del Mundial di Spagna, non erano ancora nati».

Le ultime battute Lippi le riserva agli studenti, rispondendo alle loro domande. Come si fa a trovare nuovi stimoli quando si è vinto tanto? gli chiedono: «Pensando che, anche se la fame di successi è apparentemente appagata, gli altri si attrezzano per sconfiggerti. Bisogna avere un sano spirito concorrenziale, insomma.».

Quando tornerà ad allenare, vogliono sapere altri. «Al momento mi godo una migliore qualità della vita, faccio tante cose che mi piacciono, viaggio molto e finalmente con calma. Quando torneranno a sudarmi le mani davanti a una partita di calcio, allora capirò che è il momento di rientrare in ballo. E poi, vi confesso, ho ancora la voglia di provare sensazioni così meravigliose: solo questo ti può spingere a rimetterti in gioco anche dopo aver vinto il trofeo più importante».

Infine, un'osservazione che regala, sommessamente ma con intensità ai taccuini e alle orecchie degli ascoltatori più attenti, dal suo autorevole pulpito di mister "iridato", tanto invidiato dall'estero: «La nostra squadra è riuscita alla fine a dare dimostrazione di compattezza morale e di saldezza d'intenti, trasformando in energie positive persino le critiche più dure e il disagio per gli ostacoli imprevisti. Abbiamo abbinato ad entusiasmo, qualità e creatività la voglia di "fare davvero squadra", di metterci al servizio gli uni degli altri e tutti insieme di un grande obiettivo. La gratificazione forse più grande per me, è stata quella di sentir citare la mia nazionale come un esempio che tutto il nostro Paese dovrebbe seguire per uscire da questo lungo periodo di difficoltà».