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"Il mio nome è Medea"

Al Teatro Piscator giovedì 29 novembre in scena il dramma di una donna tra classicità e contemporaneità nell'interpretazione di due studenti catanesi (foto Luca Petralia)

 
 
30 novembre 2007
di Giuliana Aiello
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Far rivivere ancora il dramma di Medea, un dramma che innumerevoli volte è stato affrontato dai più noti artisti antichi e moderni, da Alvaro a Grillparzer, fino ad arrivare a Pasolini che nel 1970 ha evidenziato magistralmente il conflitto tra mondo arcaico e moderno. E' con questo spirito che giovedì sera è andata in scena, al teatro Erwin Piscator di Catania, la prima dell'atto unico di "Il mio nome è Medea", spettacolo prodotto e realizzato da Angelo D'agosta (sceneggiatura e regia) e Giorgio Romeo (musiche), due studenti di Scienze della comunicazione, che ha ricevuto il patrocinio della facoltà di Lettere e filosofia e alla cui realizzazione hanno contribuito anche Maria Chiara Tarantello (per l'interpretazione dei testi greci), Filippa Ruggeri Longo (costumi), Alessandra Privitera e Anna Aiello (aiuto regia), Luca Petralia (foto).

La famosissima storia del mito greco narra la storia di Medea, di Giasone, suo marito, e dei loro due figli che vivono a Corinto, città in cui Medea si è trasferita, abbandonando suo padre, dopo aver aiutato il marito nella ricerca del Vello d'oro. La situazione serena della famiglia cambia radicalmente dopo dieci anni, quando Creonte, re della città, decide di dare in sposa la propria figlia Creusa a Giasone, garantendo così a quest'ultimo la possibilità di succedergli al trono. Giasone accetta, ripudiando quindi sua moglie Medea. E' questo il punto della tragedia in cui scatta il dramma interiore della donna che medita una tremenda vendetta che la porta ad uccidere Creonte, sua figlia e, per condannare Giasone all'eterna infelicità, i suoi stessi figli.


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Ma la Medea di D'Agosta e Romeo è decisamente rivisitata: l'assenza del coro, elemento essenziale della tragedia greca, che con i suoi intermezzi, gli stasimi, commenta e analizza la situazione che si sta sviluppando sulla scena, è uno degli elementi innovativi che lo prova. "Non verrà rappresentata la follia di Medea o la Medea maga bensì la Medea donna", avevano spiegato i due giovani artisti presentando il loro spettacolo. E così è stato. Già dalla scelta del titolo, D'Agosta e Romeo hanno voluto puntare, per la loro tragedia tutta al femminile (agli antipodi con i canoni del teatro classico), all'esaltazione dell'identità di Medea in quanto donna, sposa tradita e ripudiata e madre alla quale vengono negati anche i suoi figli. La scelta delle brave attrici dunque, con un'intensa Sabrina Longo nel ruolo di Medea, di Daniela Aita (nutrice), di Giulia Cagnes (Creusa), di Anna Aiello (Creonte) e di Diana Fascietta (Giasone) ha contribuito proprio a quest'innovativa interpretazione del dramma di Euripide.

All'inizio dello spettacolo è il regista stesso che interviene, vestendo i panni dell'autore e spiegando allo spettatore che ciò a cui assisterà di lì a poco sarà "una storia più forte del tempo che scorre, così forte da diventare mito e poi leggenda", è la tragedia interiore di Medea che perse tutto per Giasone; è la storia di una donna che è quasi costretta a vendicarsi e che desidera in fondo quello che desiderano tutte le donne, anzi tutti gli esseri umani, di ieri e di oggi: un po' di sacrosanta felicità.


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Sulle suggestive note di Giorgio Romeo che creano un'atmosfera magica grazie al sapiente intreccio di musica elettronica e classica a cui si alternano dei "clip" in bianco e nero nei quali Medea rivive la sua storia in uno splendido scenario siciliano, la Valle dei Templi di Agrigento, lo spettatore si accosta al gradevole lavoro dei due giovanissimi autori. D'Agosta e Romeo si avvicinano al teatro antico arricchendolo di elementi moderni, senza mai impoverirlo o inaridirlo, ma rendendolo piuttosto ancora più vicino alla nostra epoca. Riprendono quindi quello che già aveva fatto Euripide, l'autore greco di Medea che aveva attuato - come un moderno drammaturgo - il tentativo di adeguare la scena tragica alla contemporaneità, portando sulla scena la triste condizione vissuta nella società dalla donna e dagli stranieri ed evadendo, quindi, dalla tradizione tragica.

Un'opera, quella dei due studenti catanesi, che va assolutamente vista e apprezzata soprattutto perché dimostra come tematiche che nell'immaginario collettivo sembrano lontanissime, in realtà appartengano ancora, e più che mai, al "dna" culturale della nostra società.